martedì 29 gennaio 2013

Incontro di Giovedì 24 Gennaio 2013 con Pietro Pizzoni : "La notte di Entebbe"

La dettagliata ed appassionante cronaca di quanto accadde nella notte tra il 3 ed il 4  luglio 1976 all’aeroporto ugandese di Entebbe dove un’unità speciale israeliana liberò, in un blitz, un centinaio di ostaggi ebrei sequestrati su un volo di linea dell’Air France da un gruppo misto di terroristi palestinesi e tedeschi, è stato raccontata dall’amico Pietro Pizzoni con la sua consueta verve ed efficacia.
Qui di seguito la relazione integrale, apprezzata ed applaudita dai soci presenti.

La guerra del Kippur dell’ottobre 1973, anche se si era chiusa con una grande vittoria militare, aveva inciso profondamente sul morale del popolo israeliano. La sorpresa dell’attacco egiziano e le gravi perdite umane (oltre 2500 soldati erano caduti in battaglia) avevano incrinato la fiducia nell’esercito. Negli anni successivi la sicurezza stessa di Israele sembrava compromessa di fronte agli attacchi terroristici che il controspionaggio e le forze speciali non avevano saputo contrastare efficacemente. Nell’aprile 1974 tre fedayin, appartenenti al Fronte popolare per la liberazione della Palestina – comando generale (FPLP-CG) di Ahmed Jibril, si erano fatti saltare  in aria con cariche  d’esplosivo uccidendo i  18 ostaggi  sequestrati a  Kiryat Shimona,  nel nord di Israele; nel maggio 1974 tre fedayin del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDLP) di Naif Hawatmeh lanciarono un attacco contro una scuola di Ma’alot che si concluse con la morte di 25 ostaggi, in gran parte studenti, durante il mal organizzato intervento del Sayeret Matkal, noto anche semplicemente come l’Unità, il gruppo speciale d’intervento dell’esercito israeliano; nel maggio 1975 otto incursori organizzati da Abu Jihad, uno dei fondatori di al-Fatah, erano sbarcati da un gommone sulla spiaggia di Tel Aviv e si erano asserragliati, dopo aver ucciso tre persone, nell’hotel Savoy con un gruppo di ostaggi: il pronto intervento del Sayeret Matkal si era concluso con la morte di 8 ostaggi e il ferimento d i 11, oltre alla morte di tre militari.
Nel gennaio 1976 il Mossad, il servizio segreto israeliano, era riuscito invece a sventare un attentato in una zona fino a quel momento non ancora toccata dal terrorismo palestinese. Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina – operazioni esterne (FPLP-OE) fondato da Wadia Haddad, un importante esponente di al-Fatah espulso dal leader palestinese Yasser Arafat, aveva inviato da Beirut a Nairobi nel Kenya tre palestinesi per organizzare l’abbattimento di un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al. Arrestati in gran segreto dalla polizia keniota allertata dal Mossad che li aveva individuati in Libano, erano stati trovati in possesso di due missili terra-aria spalleggiabili SAM-7 e avevano rivelato che le armi gli erano state consegnate da agenti ugandesi per ordine del Presidente Amin. Nel frattempo Haddad aveva anche inviato a Nairobi due tedeschi, un uomo e una donna, membri della Rote Armee Fraktion che furono subito arrestati. Le autorità keniote consegnarono in seguito i cinque arrestati a Israele dove furono giudicati e condannati al carcere. Il pericolo sembrava sventato ma un'altra operazione era in elaborazione in quella zona da parte del gruppo di Haddad: il nome in codice di questa operazione era Uganda.

Domenica 27 giugno 1976: il dirottamento. Alle 12.20 il volo Air France 139, un bireattore Airbus A300 proveniente da Tel Aviv, decollò dall’aeroporto di Atene diretto a Parigi con a bordo 246 passeggeri e un equipaggio di 12 persone agli ordini del comandante Michel Bacos. Quattro dei passeggeri, tutti con passaporti falsi arabi e sudamericani, erano saliti a bordo ad Atene provenienti dal Bahrein con un volo Singapore Airlines. Due erano arabi e facevano parte dell’FPLP di Haddad, Gruppo Operazioni Speciali (GOS): si trattava di Fayez Abdul-Rahim Jaber, uno dei fondatori dell’FPLP, e di Jayel Naij al-Arjam, vice capo delle relazioni esterne del GOS. Gli altri due erano tedeschi occidentali, Wilfried Böse, di cui erano noti i contatti con il terrorista internazionale Carlos, e la sua ex-compagna Brigitte Kuhlmann, entrambi membri del gruppo di guerriglia urbana Revolutionäre Zellen. La scelta di imbarcarsi all’aeroporto Ellinikon non era stata casuale, in quanto si sapeva che le misure di controllo sul bagaglio a mano erano poco efficaci e che le armi, pistole e bombe a mano imbarcate con la complicità delle autorità aeroportuali del Bahrein, non sarebbero state probabilmente scoperte.
Pochi minuti dopo il decollo i terroristi si impadronirono dell’aereo e ordinarono al comandante Bacos di dirigersi verso Bengasi in Libia. Alcuni passeggeri che sembravano tentare una qualche forma di resistenza furono  colpiti col  calcio delle pistole.  I  passaporti dovettero  essere  consegnati  mentre Brigitte Kuhlmann si distingueva per la durezza dei suoi interventi e per i continui slogan antisemiti. Il dirottamento fu subito scoperto dalle autorità di controllo israeliane che avvertirono il primo ministro Yitzhak Rabin, ma per il momento non c’era da far altro che aspettare. Alle 14.58 il volo AF 139 atterrò a Bengasi e fu parcheggiato su una pista secondaria mentre il rappresentante locale dell’FPLP trattava con le autorità libiche. Il caldo allucinante rendevano le condizioni all’interno dell’aereo difficilissime. Una giovane passeggera di cittadinanza britannica, Patricia Martel, finse di essere incinta e di avere un aborto: in realtà sanguinava a causa di tagli che si era lei stessa procurata, sufficienti comunque per convincere un medico libico a farla scendere dall’aereo. Alla fine le autorità libiche permisero il rifornimento di carburante e alle 21.50 il volo AF 139 poté ripartire verso una destinazione ignota.

2° giorno, lunedì 28 giugno: destinazione Entebbe. Alle ore 03.15 l’Airbus atterrò all’aeroporto internazionale di Entebbe, una città che sorge sulla riva del grande lago Vittoria a una trentina di chilometri da Kampala, capitale dell’Uganda. Subito circondato da soldati ugandesi, l’aereo restò fermo nove ore prima di essere spostato sulla seconda pista dell’aeroporto accanto al vecchio terminal dove fu concesso finalmente ai passeggeri, ormai diventati ostaggi, di scendere. Il vecchio terminal, un edificio ad un piano affiancato da una torre di controllo, era in stato di abbandono, sporco e invaso da nugoli di moscerini. I soldati ugandesi tenevano sotto controllo i prigionieri mentre i dirottatori si incontravano con i loro compagni che già si trovavano sul posto. Tra essi Fouad Awad, un ex ufficiale libanese compagno di Carlos che prese il comando delle operazioni, e due membri dell’FPLP-GOS Abdel al-Latif e Abu Ali che distribuirono fucili d’assalto Kalashnikov e un gran numero di bombe a mano. Haddad invece seguiva le fasi dell’operazione da Mogadiscio in Somalia.
Nel pomeriggio un elicottero sbarcò il presidente dell’Uganda Idi Amin Dada, che indossava una tuta mimetica, accompagnato da uno dei suoi numerosissimi figli, un bimbo di otto anni. Sulle prime si comportò in maniera amichevole ma poco dopo si infuriò quando un prigioniero si rivolse a lui chiamandolo “Signor Presidente” pretendendo di esser chiamato “Sua Eccellenza Feldmaresciallo Dottor Idi Amin Dada”. Poi iniziò ad inveire contro gli ostaggi asserendo che solamente Israele li poteva aiutare soddisfacendo le richieste dei dirottatori.
La speranza che questo dittatore potesse trasformarsi in un mediatore con i terroristi andò presto delusa. L’ex sottufficiale dei King’s African Rifles, il reggimento britannico dell’Africa Orientale, all’epoca del dirottamento aveva circa 50 anni, essendo la data di nascita sconosciuta. Come capo di stato maggiore dell’esercito, per di più accusato di malversazione, aveva guidato un colpo di stato nel 1971, cacciando il presidente Milton Obote.  Amin conosceva bene i militari israeliani, che oltre ad avergli fornito degli aviogetti d’addestramento Fouga Magister e dei bimotori da trasporto DC-3 Dakota e istruito i piloti, gli avevano addestrato la fanteria e in particolare i paracadutisti, tanto che lui stesso esibiva sull’uniforme carica di medaglie il distintivo dei paracadutisti israeliani, anche se non era mai stato abilitato al lancio. Gli israeliani avevano anche costruito molte opere civili tra cui la parte nuova dell’aeroporto di Entebbe. I rapporti tra i due paesi si erano deteriorati quando Israele si era rifiutata di fornire ad Amin armamenti moderni, tra cui i cacciabombardieri F-4 Phantom, per risolvere le sue dispute di confine con il Kenya di Jomo Kenyatta e la Tanzania di Julis Nyerere. Per pagare i debiti contratti per l’acquisto delle forniture militari, Amin si era rivolto alla Libia e all’Arabia Saudita che in cambio avevano preteso nel 1972 l’allontanamento di tutti gli istruttori e tecnici israeliani e la chiusura dell’ambasciata. I libici avevano fornito caccia MiG ed addestrato la guardia del corpo del dittatore mentre esperti palestinesi prendevano posto nei ministeri della comunità asiatica, soprattutto composta da indiani, residente nel paese dal tempo della colonizzazione britannica e che forniva la maggioranza dei quadri tecnici. L’unico contatto rimasto con gli antichi amici era quello con l’ex capo missione militare israeliano, il colonnello in pensione Baruch Bar Lev, che ogni tanto si sentiva al telefono con il dittatore.
Nel frattempo Patricia Martel era rientrata a Londra e, interrogata da Scotland Yard e da funzionari israeliani, aveva fornito le prime indicazioni sul dirottamento e identificato i due terroristi tedeschi.

3° giorno, martedì 29 giugno. I primi contatti con i dirottatori furono presi dal governo francese. Awad nel pomeriggio diffuse tramite Radio Uganda le richieste. Dovevano essere rilasciati 53 terroristi detenuti in 5 nazioni, e precisamente 40 in Israele, 6 in Germania Occidentale, 5 in Kenya, 1 in Francia e 1 in Svizzera. Tra i detenuti in Israele c’erano Kozo Okamoto dell’Armata Rossa giapponese, unico superstite del commando che aveva compiuto la strage all’aeroporto di Lod (Tel Aviv) del maggio 1972, e l’arcivescovo Hilarion Capucci, primate della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, condannato per aver trasportato nella sua vettura di servizio armi per al-Fatah. Le trattative dovevano essere condotte esclusivamente da un inviato speciale della Francia e dall’ambasciatore di Somalia in Uganda. Il governo francese doveva inoltre pagare un riscatto di 5 milioni di dollari per la riconsegna dell’Airbus. Il comunicato annunciava che il tempo limite erano le 14.00 di giovedì 1° luglio e che se Israele non avesse aderito alle richieste gli ostaggi sarebbero stati uccisi.
Per gli ostaggi quel martedì fu il primo giorno completo nella nuova prigione. 257 prigionieri, appartenenti a dodici nazionalità, erano stipati al pian terreno del fatiscente edificio del vecchio terminal in un locale largo circa 20 metri e lungo circa 15. Dei vecchi materassi erano stati distribuiti e la maggioranza delle persone stava seduta a terra spossata e senza energia per il gran caldo e per le punture degli insetti. Gli ostaggi dovevano chiedere il permesso per andare ai servizi che emanavano un odore insopportabile, ormai intasati dagli escrementi. Nel pomeriggio, dopo una nuova visita di Amin, alcuni soldati muniti di mazze aprirono un varco in una parete divisoria del terminal e, mentre gli ostaggi attendevano il pasto serale, Brigitte Kuhlmann iniziò a separare israeliani e ebrei dai prigionieri di altre nazionalità e a smistarli nello spazio adiacente. La procedura richiamava alla mente la Selektzia, la selezione che era effettuata nei lager dell’Olocausto, il momento in cui si decideva se un internato poteva continuare a vivere almeno per qualche tempo o doveva morire subito. I sopravvissuti ai lager presenti tra gli ostaggi rividero un episodio della loro vita che mai pensavano di dover rivivere mentre i giovani poterono capire fisicamente cosa era avvenuto alle generazioni precedenti la loro.

4° giorno, mercoledì 30 giugno. Il governo israeliano stava prendendo in esame i vari piani elaborati da un comitato di specialisti di tutti i settori, che prevedevano un’azione militare per liberare gli ostaggi. Questi piani andavano dal lancio notturno di un commando munito di battelli pneumatici nel lago Vittoria al lancio di una brigata di paracadutisti per occupare l’aeroporto e impedire la reazione delle forze ugandesi. Il primo ministro Rabin, che era stato il capo di stato maggiore delle IDF – le Forze di difesa israeliane – durante la Guerra dei Sei Giorni, e l’attuale capo di stato maggiore Mordechai Gur non erano convinti delle varie opzioni proposte, temendo che potessero tradursi in un disastro. Quelle che mancavano erano le informazioni sul campo. Un’unità della Marina militare dotata di apparati elettronici per monitorare le comunicazioni era giunta al largo delle coste del Kenya. Un gruppo speciale era stato inviato in Kenya per coordinarsi con le autorità locali nella raccolta di informazioni. Agenti del Mossad tentavano di introdursi in Uganda per valutare la situazione sul terreno e scoprire dove erano tenuti i prigionieri. L’ex colonnello Bar Lev fece numerose telefonate ad Amin cercando di convincerlo a dare il suo contributo personale alla soluzione della crisi, con la lusinga della certa assegnazione del Nobel per la Pace se avesse ottenuto il rilascio degli ostaggi. Da queste telefonate emergeva che il dittatore si stava sempre di più schierando con i terroristi, addossando la colpa della situazione alla politica israeliana, e che quindi il commando che doveva liberare gli ostaggi si sarebbe dovuto battere anche contro le forze ugandesi presenti nell’aeroporto, la cui entità era sconosciuta.
Nel pomeriggio di quel giorno 47 ostaggi non ebrei, appartenenti a varie nazionalità ma soprattutto francesi, furono rilasciati dai terroristi come gesto di buona volontà nei confronti del loro ospite ugandese e imbarcati su un volo diretto a Parigi. Arrivati in serata furono presi in consegna da agenti dei servizi segreti, tra cui anche quelli israeliani, per essere interrogati: erano i primi testimoni che giungevano da Entebbe. Particolarmente importante risultò la testimonianza di un ex ufficiale dell’esercito francese che aveva registrato mentalmente una quantità di particolari: il numero e l’aspetto fisico dei terroristi, le loro armi, le loro abitudini, il comportamento e il numero presumibile delle guardie ugandesi, dove si trovavano gli ostaggi ebrei e quelli non ebrei. Soprattutto fu in grado di assicurare che l’atteggiamento dei terroristi e degli ugandesi era del tutto rilassato, come non si aspettassero una reazione da parte delle IDF.

5° giorno, giovedì 1° luglio. Quel mattino tutti i giornali israeliani uscirono con la stessa parola nei titoli di prima pagina: SELEKTZIA. Nessuna altra parola avrebbe potuto avere un effetto così dirompente sull’opinione pubblica. Poco dopo l’inizio della crisi si era costituito un comitato dei parenti degli ostaggi che, naturalmente, premeva sul governo perché fosse avviata la trattativa che comportava la liberazione dei prigionieri richiesta dai terroristi. Un clamoroso fatto nuovo si era verificato quel giovedì mattina: i terroristi avevano imbarcato su un volo Air France altri 101 ostaggi. Rimanevano prigionieri 94 ebrei, soprattutto israeliani, e i 12 membri dell’equipaggio che, su richiesta del comandante Bacos, si erano rifiutati di partire finché tutti i passeggeri non fossero stati in salvo. La notizia che una suora si era offerta di rimanere al posto di un anziano ebreo e che la sua richiesta era stata respinta significava che la “selezione” era ormai perfezionata.
L’ultimatum dei terroristi scadeva quel giorno alle 14.00 dell’orario ugandese. Le pressioni sul governo affinché avviasse la trattativa erano fortissime. I militari non avevano ancora informazioni sufficienti per intraprendere un’azione. Rabin aveva riunito quella mattina il governo e aveva chiesto ai suoi ministri di votare sulla proposta della trattativa: dovevano esprimersi contro o a favore, ma non dovevano sfuggire alla loro responsabilità rifugiandosi nell’astensione. Il voto unanime fu favorevole alla trattativa. Poi Rabin incontrò Menachem Begin, capo del Likud il maggio partito d’opposizione, che a sua volta si dichiarò favorevole ai negoziati. La decisione del governo israeliano fu comunicata ai terroristi quando mancava poco più di un’ora alla scadenza dell’ultimatum. Subito Amin telefonò a Bar Lev e gli raccomandò di ascoltare l’annuncio che avrebbe fatto Radio Uganda alle 14.00. L’annuncio fu breve: poiché il governo israeliano aveva capitolato, Amin aveva concordato con i dirottatori di estendere il termine ultimo alle 14.00 ora locale di domenica 4 luglio. In quel momento infatti il dittatore si trovava a presiedere a Mauritius una riunione dell’Organizzazione dell’unità africana e, nel caso ci fosse stato lo scambio tra ostaggi e terroristi liberati, voleva essere presente per recitare la parte del maggior protagonista dell’avvenimento con tutti gli occhi del mondo puntati su di lui.
Per i pianificatori militari la notizia significava che avevano ancora alcuni giorni a disposizione.

6° giorno, venerdì 2 giugno: il piano d’operazione. Alle ore 01.00 di venerdì il capo di stato maggiore delle IDF Gur telefonò al ministro della Difesa Shimon Peres per comunicargli che il piano per la liberazione degli ostaggi era pronto. Un modello in scala 1:1 del vecchio terminal, costruito con montanti di legno e pannelli di iuta, era stato costruito per permettere agli uomini di allenarsi. I problemi affrontati durante la pianificazione erano enormi. L’Uganda si trovava a più di 3500 chilometri da Israele, quasi al limite dell’autonomia per gli aerei Hercules C-130 scelti per l’operazione: una volta atterrati o si rifornivano a Entebbe o in un aeroporto a poco più di un’ora di volo. Non potendo prevedere il numero e la reazione dei soldati ugandesi, dovevano essere sbarcati veicoli con un armamento sufficiente per respingere un assalto di consistenti forze di fanteria, avendo il Mossad segnalato esserci oltre diecimila uomini nel raggio di 40 km dall’aeroporto. Bisognava soprattutto evitare di mettere in allarme le difese al momento dell’atterraggio per non dare tempo ai terroristi di aprire il fuoco sugli ostaggi.
Il piano d’operazione prevedeva che quattro C-130 dovevano atterrare di notte a pochi minuti di distanza uno dall’altro sulla pista nuova dell’aeroporto. Il primo ad atterrare doveva passare davanti alla nuova torre di controllo sperando di non suscitare l’allarme degli addetti al traffico: questo era il momento più critico dal quale dipendeva la riuscita dell’operazione. Poi l’aereo doveva rullare fino al vertice della pista che si incrociava ad angolo acuto con la pista vecchia, sbarcare una berlina Mercedes nera (simile a quella con cui si spostava Amin) e due Land Rover cariche di uomini del Sayeret Matkal che dovevano precipitarsi – fingendo di trasportare il presidente e la sua scorta – verso il vecchio terminal per liberare gli ostaggi. I due successivi C-130 dovevano sbarcare quattro fuoristrada blindati armati con mitragliatrici e armi controcarro, due jeep e gruppi di paracadutisti e di fanti che dovevano difendere gli aerei a terra, presidiare gli accessi dell’aeroporto, impadronirsi dei depositi di carburante per rifornire gli aerei, distruggere i MiG schierati lungo la pista. L’ultimo C-130, che trasportava due pick-up con l’attrezzatura per rifornire a terra gli aerei e che era adibito ad infermeria di primo soccorso e a trasporto degli ostaggi, doveva atterrare dopo che le prime operazioni d’assalto erano concluse. Inoltre un Boeing 707 con i colori della El Al, trasformato in centro comando e controllo volante, doveva circuire sopra l’aeroporto per seguire l’operazione dall’alto e fare da ponte con Israele trasmettendo le informazioni che arrivavano da terra, mentre un altro Boeing 707 adibito ad ospedale doveva atterrare a Nairobi. Ehud Barak, futuro capo di stato maggiore delle IDF e primo ministro di Israele, che aveva lasciato il comando del Sayeret Matkal in giugno, fu inviato in Kenya per ottenere la maggior cooperazione possibile dalle autorità locali. Per volontà del generale di brigata Dan Shomron, comandante sul terreno dell’operazione, tutte le specializzazioni dell’esercito dovevano partecipare al raid per simboleggiare che tutte le forze armate erano con loro. Pertanto, oltre alle forze speciali, avrebbero partecipato i paracadutisti (Sayeret Tzanhanim) e i fanti della Brigata Golani, una combattiva unità di fanteria che presidiava le alture del Golan al confine con la Siria (Sayeret Golani). Il computer aveva assegnato un nome provvisorio all’operazione: Wave of Ash, Onda di cenere. La missione era troppo audace per accontentarsi di un nome così banale e quindi fu scelto il più drammatico Thunderbolt (Fulmine).
A Entebbe, Dora Bloch, una prigioniera inglese di 75 anni di religione ebraica in viaggio con il figlio, si sentì male e fu ricoverata in un ospedale di Kampala.

7° giorno, sabato 3 luglio: operazione Thunderbold. La mattina alle 11.00 il governo si riunì per approvare il piano d’azione. Per molti ministri fu una sorpresa quando il generale Gur cominciò a mostrare mappe e fotografie: erano rimasti alla decisione presa in precedenza di trattare con i terroristi. La discussione andò avanti per l’intero pomeriggio a significare l’importanza dell’argomento e i pericoli insiti nella decisione. Alla fine la decisione di effettuare la missione fu presa all’unanimità ed anche i capi dell’opposizione subito informati approvarono la decisione.
Poco dopo le 13.00 decollarono dall’aeroporto di Lod a distanza di qualche minuto uno dall’altro, per non farsi notare dalle navi di sorveglianza elettronica sovietiche stazionate nel Mediterraneo, i C-130 dello Squadrone 131 “Yellow Bird”, chiamati affettuosamente dagli equipaggi “Karnaf” (rinoceronte in israeliano), con destinazione l’aeroporto di Ofira a Sharm el-Sheikh dove completarono il rifornimento. A pieno carico gli Hercules superavano di molto il peso massimo autorizzato durante le operazioni belliche. Gli aerei presero faticosamente quota e si inoltrarono nel Mar Rosso, sulle cui coste si affacciavano solamente nazioni ostili, volando in formazione larga ad una quota inferiore ai 60 metri per evitare di essere intercettati dai radar. L’equipaggio aveva gli occhi fissi sull’altimetro per mantenere la quota e sul radar per avvistare in tempo le navi e modificare subito la rotta. Svariate deviazioni dovettero essere effettuate rendendo la conduzione dell’aereo molto faticosa, tanto da costringere i tre piloti dell’aereo ad alternarsi ai comandi ogni 15 minuti. I continui sobbalzi dei velivoli e l’alta temperatura rendevano difficile la situazione dei passeggeri: molti dei soldati erano riversi squassati dai conati di vomito ma molti altri riuscirono invece a dormire.
Usciti dalla portata dei radar sudanesi e sauditi, gli Hercules virarono verso sud sopra l’Etiopia portandosi ad una quota di circa 700 metri, al di sopra della portata di armi a corta gittata ma al di sotto della capacità di intercettazione dei rudimentali sistemi di controllo di quel paese. Più o meno in quel momento pervenne l’autorizzazione finale delle autorità politiche a proseguire nella missione. I due Boeing 707, spacciandosi per voli civili diretti in Sud Africa, decollarono molte ore dopo ma, essendo più veloci, arrivarono nel cielo del Kenya, dove era fissato l’incontro finale, quasi in contemporanea con gli Hercules.
Un uragano tropicale infuriava nella zona diminuendo le capacità di intercettazione dei sistemi radar a terra. Gli aerei si portarono sul lago Vittoria ed iniziarono la manovra di avvicinamento, con la pioggia che impediva di vedere, se non all’ultimo momento, la pista le cui luci mandavano un debole chiarore. Alle 23.00, ora di Israele, che corrispondeva alle 24.00 locali, il primo Karnaf atterrò in perfetto orario sui tempi dell’operazione sulla pista nuova, sufficientemente lunga per permettere di ridurre la velocità unicamente col freno senza invertire la spinta delle eliche, manovra molto rumorosa che avrebbe messo in allarme gli ugandesi.
 
99 minuti ad Entebbe. Il primo Karnaf atterrato trasportava 29 incursori del Sayeret Matkal agli ordini del tenente colonnello Yonatan (Yoni) Netanyahu nuovo comandante dell’Unità, 52 paracadutisti e il generale Shomron con parte del suo comando. Mentre l’aereo stava ancora rullando, una decina di paracadutisti saltarono fuori dai portelli laterali per sistemare delle luci di emergenza che dovevano segnalare la pista agli altri aerei in arrivo. L’Hercules passò davanti alla torre di controllo senza suscitare allarmi e raggiunse il termine della pista dove sbarcò la Mercedes e le due Land Rover cariche di assaltatori in divisa ugandese e i restanti parà. Alle 23.02, mentre i paracadutisti si dirigevano verso il nuovo terminal ben illuminato per prenderlo d’assalto non appena fosse iniziato l’attacco per liberare gli ostaggi, il corteo di automobili, che fingeva di trasportare Amin, si avviò con i fari accesi che illuminavano l’asfalto bagnato, anche se la pioggia era ormai cessata. All’improvviso, emergendo dal buio, due soldati ugandesi si pararono davanti con i fucili puntati. Dalla Mercedes spararono alcuni colpi con una Beretta calibro 22 munita di silenziatore contro il primo dei soldati, ma le pallottole di piccolo calibro non furono sufficienti ad ucciderlo. Vedendo che il soldato ferito puntava la sua arma contro l’auto, dalla prima Land Rover partì una breve raffica di mitra che lo uccise, mentre dalla seconda Land Rover sparavano contro il secondo soldato, che riuscì però ad allontanarsi. L’effetto sorpresa sembrava svanito e il corteo di macchine si precipitò verso la torre di controllo del vecchio terminal fiocamente illuminato.
Le varie squadre di assalto scesero dalle auto e si lanciarono verso i rispettivi obiettivi sparando contro i soldati ugandesi intorno all’edificio. Tre squadre dovevano irrompere nella hall principale, dove si trovavano gli ostaggi, mentre una quarta era destinata alla hall più piccola a fianco e una quinta doveva occuparsi delle sale VIP, dove alloggiavano i terroristi. Un’altra squadra doveva occupare gli uffici della dogana seguita subito da un’altra che doveva salire al primo piano dove dormivano gli ugandesi. L’ultima formata dagli autisti, che era destinata a far la guardia ai veicoli, si dovette invece occupare di alcuni soldati ugandesi che continuavano a sparare asserragliati nella torre di controllo. La prima squadra irruppe nella hall principale del terminal dove un terrorista – si trattava di Jaber – fece partire contro il primo degli assaltatori una raffica di mitra da una distanza di 9-10 metri mancandolo clamorosamente e rimanendo ucciso dal fuoco di risposta. Le sue pallottole però colpirono mortalmente Yoni Netanyahu che si trovava davanti all’edificio. Contemporaneamente il tedesco Böse si affacciò alla porta principale del terminal dove fu preso di mira da una raffica di mitra che lo mancò. Rientrato nell’edificio urlò a Brigitte Kuhlmann che gli ugandesi si erano ribellati e che gli avevano sparato contro ma, prima che i due potessero reagire, furono eliminati da un assaltatore entrato da un’altra porta. Il quarto guardiano iniziò a sparare contro i soldati dell’Unità e durante lo scontro a fuoco per eliminarlo rimasero feriti mortalmente due ostaggi: una donna di 56 anni emigrata dalla Russia, Ida Borochovic, e un cittadino israeliano di  52 anni,  Pasco Cohen.  Per quanto  gli assaltatori  urlassero in  inglese e in ebraico agli ostaggi di rimanere sdraiati a terra, alcuni si alzarono. In un caso un assaltatore sparò uccidendo un giovane ebreo franco-algerino di 19 anni, Jean-Jacques Maimoni, e ferendo gravemente un sopravvissuto dei lager nazisti, Yitzhak David, che si era alzato per soccorrerlo. I quattro terroristi che facevano la guardia agli ostaggi erano morti: lo scontro a fuoco era durato 45 secondi, mentre tra lo sbarco degli assaltatori e l’eliminazione dei guardiani degli ostaggi erano passati quattro minuti. Il fattore sorpresa, chiave della riuscita dell’operazione, aveva funzionato.
Anche le altre squadre d’assalto avevano terminato la loro azione. Ci fu un breve scontro a fuoco al primo piano del terminal, dove erano sistemati i soldati ugandesi, molti dei quali riuscirono a fuggire saltando dalla finestra. Nelle sale VIP, dove i terroristi avevano le loro stanze, furono eliminati altri tre palestinesi. Di tutti i terroristi uccisi furono prese fotografie e impronte digitali per essere sicuri dell’identificazione. Il comandante Awad non era tra i caduti, poiché si trovava nella capitale al momento del raid.
Alla 23.06 atterrò il secondo Karnaf, subito seguito dal terzo. I fuoristrada blindati appena sbarcati presero posizione, in particolare due si occupano della strada a nord per Kampala da dove poteva arrivare la fanteria ugandese. I soldati sbarcati da questi aerei si unirono ai loro compagni del primo Karnaf atterrato che avevano già occupato il loro obiettivo. Senza praticamente trovare resistenza, si erano impadroniti del nuovo terminal e della torre di controllo: un poliziotto ugandese sparò un unico colpo di pistola che colpì alla colonna vertebrale un sergente paracadutista paralizzandolo per la vita. Subito dopo i depositi di carburante furono catturati intatti.
Alle 23.08 atterrò il quarto Karnaf che sbarcò la squadra dell’aeronautica addetta ai rifornimenti con la speciale apparecchiatura. Poi rullò fino a 150 metri dal vecchio terminal dove una squadra di Golani si schierò, formando un imbuto fino alla rampa posteriore d’accesso all’aereo, in modo da impedire che gli ostaggi si disperdessero nella notte. Gli ostaggi iniziano ad imbarcarsi in un clima di grande confusione, compresi i feriti e i corpi dei caduti. Furono più volte contati nell’aereo stipato all’inverosimile per essere certi che non mancasse nessuno: i conti però non tornavano finché si riuscì a capire che mancava la signora Bloch. Alle 23.52 il Karnaf n.4 decollò con il carico di feriti ed ostaggi: aveva l’autorizzazione di atterrare a Nairobi.
Sulla pista dell’aeroporto stazionavano cinque caccia MiG-21 e tre MiG-17 che furono tutti distrutti. Un unico soldato ugandese continuava a sparare ogni tanto dalla torre, mentre alcuni camion carichi di soldati furono visti dirigersi verso l’accesso nord dell’aeroporto ma bastarono alcuni colpi di mitragliatrice per tenerli lontani. Mentre stavano iniziando le operazioni per il rifornimento degli aerei, arrivò la notizia che tutti potevano dirigersi a Nairobi, il presidente Kenyatta aveva dato l’autorizzazione. Alle 00.12 di domenica 4 luglio il Karnaf n.1 decollò verso la capitale keniota. I fuoristrada e le jeep – agli ordini del maggiore Shaul Mofaz, un futuro capo di stato maggiore delle IDF – iniziarono a ritirarsi tenendo sempre d’occhio gli accessi a nord. Mentre si ritiravano lasciavano cadere sulla pista bombe a scoppio ritardato per scoraggiare eventuali inseguitori. Decollò per primo il Karnaf n.3, poi alle ore 00.44 il Karnaf n.2. Erano trascorsi esattamente 99 minuti dall’atterraggio del primo aereo ad Entebbe. Tutti i veicoli e il materiale sbarcati furono recuperati, eccetto l’apparecchiatura per il rifornimento a terra degli aerei: per quella, data la presenza degli ostaggi, non c’era più posto a bordo.

Trionfo e tragedia. Il raid era stato un successo, gli ostaggi erano stati liberati con la perdita di tre di loro. Gli assalitori avevano subito la perdita del colonnello Netanyahu, che morì sull’aereo diretto a Nairobi, e l’invalidità permanente di uno di loro. I quattro Hercules arrivarono nella capitale keniota seguiti dal Boeing 707 del centro comando. Il Boeing trasformato in ospedale partì per Israele con a bordo un certo numero di donne e bambini e  i feriti trasportabili. Cohen, l’ostaggio ferito gravemente, fu ricoverato a Nairobi ma non si riprese dopo l’intervento chirurgico. Poi alle 02.04 decollò il Karnaf n.4 con a bordo gli ostaggi, seguito nel giro di pochi minuti dagli altri tre. Tutti fecero rotta verso est sull’Oceano Indiano, per poi virare verso nord, aggirando il Corno d’Africa, attraversare lo stretto di Bab el Mandeb e risalire il Mar Rosso fino ad Israele. Mentre volavano sopra il Mar Rosso la radio comunicò la notizia del raid di Entebbe: era stato un giornalista della France Presse a venire a conoscenza della sparatoria all’aeroporto e, dopo aver tratto le esatte conclusioni, a diffondere la notizia. Il timore di essere intercettati da caccia sauditi o egiziani svanì quando arrivarono i Phantom a scortare il rientro.
Mentre sorvolavano il porto di Eilat i passeggeri videro le spiagge gremite di folle festanti che li salutavano: era la nazione intera che aveva ritrovato la fiducia in se stessa e che carica d’orgoglio accoglieva i suoi cittadini e i suoi soldati. All’arrivo a Tel Aviv la felicità dei parenti degli ostaggi liberati esplose. Purtroppo, pure se le perdite erano state minime, c’era anche il dolore dei parenti di chi era caduto. La piccola Tzipi Cohen, di otto anni, che aveva visto per l’ultima volta il padre scendere dall’aereo in barella a Nairobi dove sarebbe morto; gli ignari genitori del giovane Maimoni, accorsi felici all’aeroporto; il figlio di Dora Bloch angosciato per aver dovuto lasciare la madre in Uganda; Benjamin (futuro primo ministro) e Iddo Netanyahu, il primo ex membro e il secondo ancora in forza al Sayeret Matkal, che accoglievano la salma del loro fratello maggiore. Due giorni dopo ci furono a Gerusalemme i funerali di Netanyahu ai quali parteciparono migliaia di persone: in suo onore e ricordo, Thunderbolt fu ribattezzata Operazione Yonatan.
Il comandante Bacos ricevette una nota di biasimo dai suoi superiori per essersi rifiutato di rientrare in patria, a costo di abbandonare i suoi passeggeri, ma nello stesso anno il Presidente della Repubblica Giscard d’Estaing gli conferì la Legion d’Onore. Tutti i dodici membri dell’equipaggio del volo AF 139 ricevettero una onorificenza dallo Stato di Israele.
La tensione che si era diffusa tra le fila dell’esercito ugandese portò i soldati, quando ripresero il controllo dell’aeroporto, a spararsi tra loro: si calcola che un buon numero dei 45 soldati ugandesi morti ad Entebbe fu vittima di questo fuoco “amico”. L’umiliazione subita dal raid scatenò in Amin un folle desiderio di vendetta. La sventurata signora Bloch fu prelevata dall’ospedale da due dei peggiori sicari del dittatore e uccisa; dopo la caduta del regime, i suoi resti furono recuperati in una piantagione e restituiti per la sepoltura in Israele. I tre controllori di volo, in servizio nella notte del raid, furono ritenuti responsabili della sconfitta per non aver avvistato gli aerei israeliani e furono quindi orribilmente torturati e uccisi. Ritenendo il governo keniota responsabile quanto quello israeliano, Amin fece uccidere 3000 appartenenti ad una etnia che abitava sul confine conteso tra i due stati. Poi, nel 1978, invitò per una visita di stato il ministro keniota dell’Agricoltura, che era stato consigliere per la sicurezza di Kenyatta. Al momento della partenza, gli regalò una testa di antilope imbalsamata contenente una bomba che esplose sull’aereo del ministro uccidendo tutti gli occupanti.
Il regime sanguinario fu rovesciato nell’aprile 1979 a seguito dell’invasione dell’Uganda da parte della Tanzania. Amin si rifugiò in Arabia Saudita con 2 mogli e 24 figli. Morì nel 2003 per insufficienza renale dovuta probabilmente a una neurosifilide.

Il consueto tocco della campana ha posto fine all’incontro conviviale.

                                                                                             
                                                                                                          A cura di Fabio Toldo