lunedì 29 aprile 2013

Incontro di Giovedì 18 Aprile 2013 con Patrizio Tumietto: "Bhagavad Gita: il Canto del Divino Signore"

Il nostro socio e Presidente Eletto per l'AR 2014–2015, Patrizio Tumietto, ha tenuto una interessantissima relazione su un tema di eterna attualità, ancorché al di fuori degli schemi tradizionali: Il canto del divino Signore.
Oggetto della relazione sono stati alcuni passi della Bhagavad Gita ed i temi dagli stessi richiamati. Una dimensione diversa quindi ma comunque presente nella quotidianità della esistenza di tutti noi.
Riportiamo la relazione cortesemente fornitaci da Patrizio ed i documenti illustrativi allegati.

La Bhagavad Gita o “Canto del Beato Signore” fa parte della storia epica raccontata nel Mahabharata; è  redatta in sanscrito ed èuna delle due principali sacre scritture dell’Induismo[1]ma, pur appartenendo al poema, ha una sua propria struttura e storia autonoma.
La data della sua redazione è dubbia, alcuni dicono risalga al 5° secolo avanti Cristo, per altri risalirebbe addirittura  al 3000 a.c.
La paternità è attribuita al saggio Vyasa e nel testo vi si concentrano tutte le tematiche religiose e esoteriche dell'induismo.
La Gita stessa si definisce come “la sacra scrittura dello Yoga[2] e della scienza per conoscere profondamente Dio”
Molti concetti della Gita si trovano anche nelle scritture cristiane, dimostrando una sostanziale universalità nei principi che regolano il viaggio del’uomo alla ricerca di Dio.
La parola Yoga significa unione, unione della coscienza individuale, ovvero dell’anima, con la coscienza universale dello spirito.
La lunghezza del  Mahabharataè considerevole, circa venti volte la Bibbia.
La storia, letta superficialmente, sembra  abbastanza semplice, ma contiene una grande profondità di pensiero, e di consigli applicabili da qualsiasi persona su qualunque grado si trovi sulla scala dell’evoluzione spirituale. 
Essa riguarda la lotta tra due famiglie di cugini per ottenere il dominio del regno di Hastinapura, non lontano all'attuale Dehli.
Le due famiglie sono quelle dei Pandava, che rappresentano nell'interpretazione esoterica, dell'animo umano le tendenze positive[3] e dei Kauravao Kuru, che rappresentano invece quelle negative.
Quindi il poema, l’ambientazione storica della battaglia e i contendenti coinvolti in essa servono allo scopo di esemplificare la battaglia spirituale e psicologica sempre in corso tra le qualità del puro intelletto, dotato di discernimento ed in sintonia con l’anima e quello della cieca mente soggiogata dai sensi, che si trova sotto la illusoria influenza dell’ego.
Il personaggio fondamentale dell'intero poema e della Gita in particolare è Sri Krishna.

[1] L’altra è Il Ramayana
[2] Lo yoga è più conosciuto come una specie di ginnastica fisica; in realtà questa attività è solo propedeutica alla migliore realizzazione della ricerca spirituale dello yoga.
[3] I Pandava sono:
  • Yudhisthira, figlio di Kunti e Yama (dio della giustizia), erede al trono, di grande saggezza e dal forte senso di rettirudine;
  • Bhima, figlio di Kunti e Vayu (dio del vento), dalla forza sovrumana, invincibile nella lotta;
  • Arjuna, figlio di Kunti e Indra (dio dei semidèi), impareggiabile nel combattimento e nell'uso delle armi;
  • Nakula e Sahadeva, figli di Madri e dei gemelli AshvinKumara (medici degli dèi), di bell'aspetto e grande erudizione.
Nel Mahabharata, Krishna opera in tutti i modi per evitare la guerra, anche perché imparentato con entrambe le famiglie in lotta.
È sintomatico del suo agire come si comporta di fronte alle richieste di aiuto delle due parti.
Dato che la battaglia sembrava inevitabile, sia Arjuna, il condottiero  dei Pandava, sia Duryodhana il capo dei Kuru un giorno decisero di andare da Sri Krishna per avere il suo supporto durante l’inevitabile battaglia di Kurukshetra. Il primo ad arrivare fu Duryodhana.  Krishna stava riposando, e Duryodhana si sedette su uno sgabello vicino al capo di Krishna. Poco dopo Arjuna arrivò e rimase in piedi, in un atteggiamento riverente a mani giunte ai piedi di Krishna.  Quando Krishna si svegliò, chiese ai due cosa volessero. Saputo lo scopo della loro visita, Krishna disse: vi offro due possibilità, uno di voi può avere tutto il mio esercito e l’altro, me a guidare il suo carro; ma io non combatterò. Dato che Krishna aveva visto Arjuna per primo, gli chiese cosa preferiva e Arjuna scelse Krishna come guidatore del suo carro.  Duryodhana era più che felice di poter usare l’enorme esercito di Sri Krishna, perché questo era lo scopodella sua visita.
A questo punto, per comprendere il perché della scelta di Arjuna, devo introdurre il concetto della relazione tra Guru e discepolo.
Il Guru è un Maestro che ha raggiunto l’unione con Dio ed è in grado di guidare i suoi discepoli verso Dio e senza il cui aiuto il discepolo non potrà ottenere egli stesso la realizzazione del Sé. 
Un vero Maestro è come Cristo che aveva discepoli scelti da lui stesso.
Si tratta di uno dei concetti fondamentali dell'induismo, in uno con quello della reincarnazione e della creazione del karma, positivo o negativo, che si semina nel ciclo delle vite ricorrenti.
Accettando questi concetti si comprende facilmente il perché Arjuna abbia scelto Krishna invece del suo esercito; la sua fedeltà assoluta è nel compito e nei poteri del Guru, al quale egli si affida totalmente.
La Bhagavad Gita si esprime sotto forma di racconto fatto al re  cieco  Dhritarastra, padre dei Kaurava,dalsaggio Sanjaya,mentre erano seduti su una collina da cui si vedeva il campo di battaglia.
Il racconto inizia nel momento in cui Arjuna, all'inizio della guerra, sul campo di  Kurukshetra (che simbolicamente rappresenta l’animo umano), chiede a Krishna, che si era prestato a fargli da guidatore del suo cocchio, oltre che da consigliere, di portarlo sul campo tra i due eserciti schierati, prima di dare inizio alla battaglia con il suono della sua conchiglia.
A questo punto, però, trovandosi a dover combattere e ferire od uccidere i suoi stessi parenti, mentori ed amici, si lascia prendere dallo sconforto e si rifiuta di combattere.
Attraverso i 18 capitoli della Gita, il Maestro, Krishna, che aveva indotto questa debolezza al suo discepolo per poterlo istruire sui suoi doveri all’interno del mondo e sul modo di esercitarli, spiega ad Arjuna gli insegnamenti dello yoga.
Più avanti  riporto alcuni di questi precetti, che ho cercato di rendere quanto più semplici e comprensibili.
Terminato il dialogo, Arjuna ritrova la sua forza e la sua volontà e suona la conchiglia dando inizio alla battaglia.
Qui termina la Gita; il Mahabharata prosegue con la descrizione epica della battaglia che, dopo grandi sofferenze, vede la vittoria dei Pandava che riconquistano il regno.
Ho sopra accennato ai concetti di reincarnazione e di karma, ne do ora una breve descrizione.
Il concetto di reincarnazione consiste nel fatto che per raggiungere l’unione con Dio, l’essere umano deve passare attraverso cicli di più vite durante le quali deve perfezionarsi sempre di più per raggiungere, appunto, l’unione con l’Infinito.
Durante questi cicli egli crea karma positivo o negativo che si riflette sulle sue tendenze e nei suoi comportamenti nella vita in corso e in quelle successive.
Ciò perché l’anima è unica e, per metafora, si limita a cambiare il suo involucro terreno di volta in volta, quali smettesse un vestito diventato ormai vecchio.
L’essere realizzato, cioè colui che è riuscito ad unirsi a Dio,  è liberato dal ciclo delle reincarnazioni.
La funzione della reincarnazione degli esseri realizzati,  é di tornare sulla terra nei momenti più difficili per portare saggezza e speranza alla umanità in difficoltà.
Questo Krishna lo esprime con chiarezza nei capitoli finali della Gita.
Krishna rappresenta l'elevazione della natura umana a realtà divina.
Il  maestro guida lentamente il discepolo al conseguimento della condizione che egli già possiede ma che necessita dell’aiuto del Guru per esprimersi pienamente.
Il discepolo, Arjuna, sta a indicare la condizione dell'anima che lotta ancora  contro le forze delle tenebre, della falsità, della limitazione, della morte, che sbarrano la strada che porta ad un mondo più alto.
Arjuna è quello che si fa portare dal carro che è simbolo del corpo, ma Krishna è l'auriga ed è questi appunto che deve guidarlo per la  strada da percorrere nel suo viaggio.
Krishna spiega ad Arjuna che il Sé non nasce mai, né mai muore, né, essendo ciò che è venuto ad essere, cesserà di essere, è non nato, eterno, permanente, originario;non è ucciso, quando il corpo è ucciso.
Il dialogo tra i due si svolge fino al momento in cui Arjuna chiede a Krishna di poterlo vedere nella sua essenza immortale; Krishna accetta di concedere questo dono, ma gli dice che dovrà dargli la forza necessaria perché lui come essere umano, sarebbe sopraffatto al cospetto della potenza dell’Infinito.
Quindi Krishna concede il dono e Arjuna vede la gloria e la potenza di Dio.
E’ uno dei capitoli più belli della Gita, dove si vede l’essere umano comprendere  la sua modestia di fronte all’infinitezza di Dio.
Arjuna, dopo la fine di questa esperienza, tornato alla sua dimensione umana, chiede scusa a Krishna per averlo trattato semplicemente come amico e come un compagno, ma Krishna gli conferma la sua amicizia e il suo amore imperituro, altro carattere tipico del rapporto Guru-discepolo.
Krishna prosegue dicendo: nessuna arma può trafiggere l’anima, non c’è fuoco che possa bruciarla né acqua ce possa permearla né vento che possa disseccarla.
L’anima è inviolabile; non la si può bruciare o bagnare, o disseccare.
L’anima è immutabile, onnipervadente, sempre calma ed immota: eternamente la stessa.
L’anima è detta insondabile, immani festa e imperturbabile; perciò, conoscendo la sua natura, non devi rammaricarti. BHAGAVAD GITA II: 23-25
I Veda parlano del dominio delle  Gunas, cioè  delle tre umane  qualità[4]Sattva, Rajas e Tamas.
Krishna dice al suo discepolo:  ma tu liberati da queste tre qualità e   dalle coppie degli opposti! Perennemente calmo, senza nutrire alcun pensiero di ricevere e conservare, fissa saldamente la tua dimora nel sé. BHAGAVAD GITA II: 45
Tu hai un diritto particolare all’azione, ma in nessun caso un diritto ai suoi frutti; non essere come uno che dipende dal frutto del karma; e non sia in te neanche attaccamento alcuno alla non-azione.
(Questo è uno degli insegnamenti più profondi dello yoga, cioè la consapevolezza che l’obbligo dell’individuo è impegnarsi ad elevare le sue qualità, dare il massimo di sé stesso, ma disinteressarsi del risultato delle sue azioni che, condizionate da fattori che non dipendono dalla sua volontà, possono dare risultati diversi da quelli che lui si aspetta. Mia nota)
Chi è tutt’uno con la saggezza cosmica va oltre gli effetti della virtè sia del vizio, e anche qui, in questa vita.
Votati dunque allo yoga, l’unione divina.
Lo yoga è l’arte della giusta azione.

[4]
Le diverse qualità dei Guna
La filosofia indiana, con la tipica esigenza di classificazione e la convinzione della corrispondenza Macrocosmo-Microcosmo, attraverso la teoria dei Guna spiega tutti gli aspetti della realtà psicologica, esoterica e fenomenologica. I Guna infatti sono numericamente infiniti, così come gli stati di coscienza, anche se per praticità vengono distinti in tre categorie funzionali:
  • Sattva: luminosità, consapevolezza, saggezza, salute, solarità, virtù, pace, calma, felicità, vita. Corrisponde ad una predisposizione propria di esseri dediti alla contemplazione.
  • Rajas: passione, attività, eccitazione, desiderio, egoismo, attaccamento, oscillazione, instabilità, dolore. Corrisponde ad un impulso espansivo che s'incontra in esseri determinati dall'azione.
  • Tamas: ignoranza, oscurità, indolenza, pigrizia, inerzia, staticità, illusione, apatia, indifferenza, morte. Corrisponde all'oscurità che domina gli esseri soggetti alla tirannia delle passioni.

Coloro che hanno imparato a dominare la mente si immergono nella saggezza infinita e non hanno più interesse per alcun frutto delle azioni; liberi dalla catena delle rinascite, raggiungono lo stato che è al di là del dolore. BHAGAVAD GITA II: 50, 51
Pur essendo senza nascita, fatto di Essenza inalterabile, tuttavia, diventando il Signore di tutta la creazione e dimorando nella mia Natura cosmica, Io mi incarno grazie a Maja, l’illusione che dal mio Sé ha avuto origine. BHAGAVAD GITA IV: 6, 7
Colui che percepisce intuitivamente le mie divine manifestazioni e azioni vibratorie, nella loro realtà di armonici principi creativi, non rinacse dopo la morte; egli mi raggiunge, o Arjuna! BHAGAVAD GITA IV: 8, 9
Purificati dalla saggezza ascetica, liberatasi da attaccamenti, paura ed ira, assorti ed immersi in Me come loro unico rifugio, molti esseri hanno raggiunto la mia stessa natura. BHAGAVAD GITA IV: 10.
La natura del karma (azione) è molto difficile da conoscere. In verità, per comprendere pienamente la natura della giusta azione, è  necessario comprendere anche la natura dell’azione opposta (ovvero errata) e quella dell’inazione. BHAGAVAD GITA IV: 17
I sapienti chiamano saggio quell’uomo le cui iniziative non sono mai guidate da propositi egoistici o dal desiderio per i risultati e le cui azioni sono purificate dal fuoco della saggezza che cauterizza tutte le conseguenze karmiche dell’agire.
Abbandonando ogni attaccamento per i frutti del loro operato, sempre appagati ed indipendenti dalle ricompense materiali, i saggi non compiono mai alcuna azione vincolante, anche nel pieno dell’attività.  BHAGAVAD GITA IV: 19, 20
Anche se tu fossi il peggior peccatore fra tutti i peccatori, pure con la sola zattera della saggezza attraverserai sano e salvo il mare del peccato.
O  Arjuna,proprio come un  fuoco  ardente  riduce in cenere la legna,  così il fuoco della saggezza riduce in cenere tutto il karma.
In verità nient’altro in questo mondo purifica come la saggezza. A tempo debito, il devoto che ha raggiunto la perfezione nello yoga comprenderà spontaneamente questa verità nel proprio Sé. BHAGAVAD GITA IV: 36, 37, 38
Chi conosce la verità, essendo unito a Dio, comprende automaticamente: “Non sono io che agisco”. Anche se vede, ode, tocca, odora, mangia, si muove, dorme, respira, parla, rigetta, trattiene, e apre o chiude gli occhi; egli infatti, comprende che sono i sensi attivati dalla Natura ad interagire con i propri oggetti.
BHAGAVAD GITA V: 8, 9
E’ un vero rinunciante e anche un vero yogi solo colui che compie azioni doverose spirituali senza desiderarne i frutti, non chi si astiene dalla cerimonia del fuoco (i sacrifici) o chi rinuncia alla azione.
Sappi o Arjuna che lo yoga e quanto nelle scritture è chiamato rinuncia sono la stessa cosa; infatti chi non ha rinunciato ai moventi egoistici non può essere uno yogi. BHAGAVAD GITA VI: 1, 2
Colui che Mi percepisce ovunque e vede Me in ogni cosa, non Mi perde mai di vista né Io perdo mai di vista lui.
Dimora sempre in me quello yogi che, saldo nella divina unione in qualunque forma di esistenza, comprende che Io pervado tutti gli esseri.
O Arjuna, non c’è yoghi migliore di colui che prova per gli altri, nel dolore come nel piacere, esattamente ciò che prova per sé stesso.
BHAGAVAD GITA VI: 30-32
Di questo mondo io sono il padre, la madre, il progenitore, il preservatore, il santificatore, l’oggetto della conoscenza che comprende il sé ogni cosa, il cosmico Om e anche la saggezza dei Veda.
BHAGAVAD GITA IX: 17
Il reverente dono di una foglia, di un frutto o di un po’ d’acqua fatta con intenzione pura è una devota offerta gradita ai miei occhi.BHAGAVAD GITA IX: 26
Questa, molto in sintesi è la Gita, in sostanza il viaggio intrapreso dall’anima per fare ritorno a Dio, un viaggio che ognuno è destinato a compiere.
Il messaggio trasmesso da Krishna nella Gita è la risposta ideale alle necessità dell’epoca moderna, come di ogni altra epoca.
E’ lo yoga della giusta azione, del distacco e della meditazione volto alla realizzazione di Dio.
Il sentiero che Krishna raccomanda di seguire nella Gita è l’equilibrata ed aurea via di mezzo (concetto che appartiene pure al buddhismo) adatta sia agli uomini impegnati nel mondo sia agli aspiranti spirituali altamente progreditiCioè vivere nel mondo ma senza farsene schiavi.
Per quanto riguarda Krishna, continuò a regnare ma poi vide la fine del suo regno a cause di lotte tra i suoi discendenti.
Ritiratosi nella foresta al termine della sua missione sulla terra, abbandonò la sua forma corporea ucciso per errore da un cacciatore che lo aveva scambiato per un cervo.
Quando questi, disperato per l’errore si avvicinò a Krishna morente, questi lo tranquillizzò dicendo che in una vita precedente lo aveva offeso e quindi in questo modo scontava il karma negativo a suo tempo creato.
Pertanto, poiché  il corpo deve avere una causa di morte per permettere all’anima di liberarsi dalla forma fisica, nulla poteva essergli addebitato.

Introduzione
L'epos rāmaico consta di 24.000 śloka (versi), 86.000 in meno rispetto al più complesso Mahabharatha, suddivisi in oltre cinquecento sarga (sezione di testo) distribuiti in sette libri (kānda), di cui il primo (Bāla-kānda) e il settimo (Uttara-kānda) sono considerati, a giudizio unanime della critica, delle addizioni posteriori.
Il nucleo originario dell'intera opera è costituito dai kānda II-VI, e seppure siano anche qui individuabili evidenti interpolazioni e aggiunte, non si può non notare la coerenza, l'omogeneità e l'organicità di stile, di contenuto e di struttura, a tal punto da fare pensare ad un unico autore, ipotesi per altro accreditata dalla tradizione che ha sempre attribuito al saggio Vālmīki la paternità dell'opera. La redazione definitiva del poema si fa risalire al I-II secolo d.C.: esso, infatti, è anteriore alla redazione definitiva del Mahābhārata, ma si ritiene che la sua forma originaria possa risalire al IV - III secolo a.C. (epoca Maurya), se non addirittura al VI secolo a.C.
Il Rāmāyana, proprio come i poemi omerici, può essere considerato come un serbatoio o una raccolta dell'insieme delle conoscenze e dei modelli culturali di un'intera civiltà. L'epos rāmaico pertanto svolge una funzione educativa adempiendo in pieno, essendo depositario del sapere collettivo, al suo compito didattico-paradigmatico. Eppure questo deposito o "sedimento ereditario", trasmesso dalla tradizione orale, non va inteso come patrimonio onnicomprensivo, ma piuttosto come stratificazione e sovrapposizione progressiva di un materiale storico, mitico, aneddotico e geografico che nel corso dei secoli è stato ricucito in una raccolta organica divenuta sintesi e simbolo dei contenuti culturali, religiosi e filosofici di un'intera civiltà.
In questo senso Rāma, non è solo il protagonista dell'epos narrato, bensì il nome dato ad un codice di comportamento morale, religioso, politico, e sociale che appartiene ad una fase precisa della civiltà indiana. Ciò significa che il poema rāmaico non solo “descrive", ma "prescrive", attraverso il fulgido esempio di Rāma e Sītā come archetipi di perfezione e di adesione al dharma, un modello di condotta morale e etica da imitare e interiorizzare. La narrazione di questi eventi mitici ci è giunta grazie alle eleganti strofe di Vālmīki che, con il suo stile raffinato ed erudito, sembra anticipare gli elaborati componimenti di epoca classica (Kāvya), ossia un particolare tipo di letteratura caratterizzata da lunghissime descrizioni, sorprendenti paragoni e metafore, giochi di parole e ostentazioni di dottrina, rime interne e tutto un repertorio di ricercatezze formali e ornamenti stilistici (alamkāra) che inducono gli studiosi ad ipotizzare una matrice di natura aristocratica e a individuare nelle corti e nelle cerchie di intellettuali il luogo privilegiato di irradiazione di questo nuova e sapiente produzione letteraria. Anche gli indologi sono unanimi nell'accettare il dato della tradizione che assegna al veggente (rishi) Vālmīki la composizione del poema o, almeno, di quello che è ritenuto il suo nucleo originario, nonostante il nome del veggente venga citato solo esclusivamente nelle due sezioni, la prima e la settima, notoriamente considerate spurie. In ogni caso il celebre rishi non avrebbe fatto altro che rielaborare e ricucire gli antichi materiali relativi all'eroe Rāma, tramandati dai bardi o cantori itineranti (cārana, kuśīlava), dei quali abbiamo traccia anche in tradizioni esterne alla cultura brahmanica, come quella buddhista e quella jaina.
Il Rāmāyana è giunto a noi in tre recensioni, ossia l'edizione di Bombay, probabilmente la più antica e detta, dallo Jacoby  (C),  la  bengalese  o  Gauda  (B)  e la  Kaśmiriana  o  nord-occidentale  (A).   Tutte e tre le  recensioni,  seppure differiscano per intere sezioni e persino per discrepanze di contenuto, sono suddivise in sette kānda e offrono ad ogni modo una visione omogenea e coerente dello svolgimento dell'azione principale. Ogni kānda origina il proprio nome dalla natura della materia trattata.

La storia
Il poema narra la storia di Rama, settimo avatar di Viṣṇu, sovrano ideale e guerriero valoroso, e della sua sposa, Sita. Rama, principe ereditario del regno di Koshala viene privato ingiustamente del diritto al trono ed esiliato dalla capitale Ayodhya. Rama trascorrerà 14 anni in esilio, insieme alla moglie Sita ed al fratello Lakshmana, dapprima nei pressi della collina di Citrakuta, dove si trovava l’eremo di Valmiki e di molti altri saggi, in seguito nella foresta Dandaka, popolata da molti demoni (rakshasa). Lì Sita viene rapita dal crudele re dei demoni, Ravana, che la conduce nell’isola di Lanka. Rama e Lakshmana si alleano con i Vanara, potente popolo di uomini-scimmia, ed insieme ai guerrieri scimmia, tra i quali c’è il valoroso e fedele Hanuman costruiscono un ponte che collega l’estremità meridionale dell’India con Lanka. L’esercito affronta l’armata dei demoni, e Ravana viene ucciso in duello da Rama, che torna vittorioso nella capitale Ayodhya, e viene incoronato re. Rama, per rispettare il dharma, è costretto a ripudiare Sita, a causa del sospetto che abbia ceduto alle molestie di Ravana. Per dare prova della sua purezza, Sita accetta di sottoporsi alla prova del fuoco, ed esce indenne dalle fiamme.

1-     
La Trimurti Indù. Essa è composta da:

Brahma

Personificazione del supremo Brahman, è il creatore dell'universo e membro, insieme a Shiva e Vishnu, della Trimurti indù, triade divina di formazione postvedica. Benché l'attività creatrice sia stata attribuita a diverse divinità nel periodo vedico più antico, nell'epoca dei Brahmana (un genere di letteratura vedica interessata al dogma e al rituale, ma ricca anche di riferimenti mitici e speculazioni filosofiche) il dio padre, Prajapati (l'epiteto vedico di Brahma), appare l'unico creatore; nella Manu Smriti o Leggi di Manu si afferma che Brahma, già autonomamente esistente, crea il mondo dall'uovo cosmico e la sua esistenza si protrae per un tempo così lungo da non essere paragonabile alle grandezze concepibili dall'uomo. Le tradizionali rappresentazioni indù di Brahma lo raffigurano nato da un loto che spunta dall'ombelico di Vishnu e dotato originariamente di cinque teste, una delle quali viene tagliata da Shiva. Sua sposa è Sarasvati, la personificazione dell'eloquenza, la dea del sapere e delle arti che costituisce una delle numerose personificazioni della Grande Dea. Nell'attuale religione indù Brahma svolge un ruolo di secondo piano: Vishnu, Shiva e la stessa Sarasvati vengono venerati più diffusamente di questo dio.

Vishnu
L'"onnipervadente", una delle tre grandi divinità dell'induismo insieme a Shiva e Brahma. Divinità degli spazi, Vishnu è diventato il centro dell'attenzione di molte sette di devoti (vaishnava) dalle molteplici credenze e pratiche. Inizialmente Vishnu era una divinità minore (nei Veda è fratello di Indra). Nei Purana Vishnu assume maggiore importanza: fedele al suo ruolo di conservatore, si dice intervenga nel mondo quando l'ordine universale è minacciato per ristabilire il dharma (l'ordine delle cose) e salvare i propri devoti manifestandosi nelle sue incarnazioni o "discese" (avatara) che secondo la tradizione possono essere quattro, sei, dieci, ventidue o teoricamente infinite. Si pensa attualmente che esse siano dieci: Matsya (pesce), Kurma (tartaruga), Varaha (cinghiale), Narasimha (uomo-leone), Vamana (nano), Parashurama (Rama con l'ascia), Rama, Krishna, Buddha e Kalki (l'incarnazione ventura).
La presenza del Buddha in questo elenco mostra come il concetto degli avatara sia stato usato persincretizzare il culto di Vishnu con altri culti; inoltre le infinite possibilità di manifestazione di Vishnu garantiscono che il dio continuerà a trasformarsi assimilandosi e integrandosi con le divinità locali. Oltre alle loro specifiche discese, tutti gli avatara sono contemporaneamente presenti, e restano così disponibili ai fedeli; per questo tutti i templi vaishnava sono dedicati a specifiche forme del dio.
Il Visnu vedico. Divinità minore della religione vedica, Visnu è tuttavia presentato nel Rig-Veda come l'alleato di Indra e il «salvatore degli dei». Questi sono combattuti, con successo, dai demoni comandati dal gigante Bali; Visnu, sotto la forma di un nano, stringe con Bali il seguente patto: Lo spazio riservato agli dei sarà compreso, gli dice, fra tre dei miei passi; il resto del mondo ti apparterrà.
Il gigante accetta e Visnu varca il cielo con il suo primo passo, la terra con il suo secondo passo e gli inferi con il suo terzo passo. Da questo il soprannome di Visnu: Trivikrama (Visnu dai tre passi).
• Visnu nell'induismo. Il culto di Visnu si sviluppò nelle regioni indiane in riferimento a due incarnazioni (avatara) già note alla religione vedica: Krisna e Rama.
Sembra oscura la ragione per cui Visnu sia diventata una figura di primo piano proprio nella religione induistica, seppur conosciuta dalla letteratura vedica. É evidente, invece, come il processo storico-religioso indiano abbia favorito l'accrescere progressivo dell'ascendenza mistica di questa divinità.Come abbiamo accennato, il culto di Visnu risulta dall'adorazione di Krisna e Rama. La figura di Krisna va considerata sotto due aspetti: quello mitologico e quello di un personaggio realmente esistito.Krisna, dunque, sarebbe stato un principe dei Yadawa, abitatore della regione ad ovest del fiume Yammà. Dopo la morte, egli sarebbe divenuto oggetto di venerazione da parte del suo popolo, e sarebbe stato considerato come incarnazione di Vasudeva, divinità popolare che venne poi identificata con Visnu. Se consideriamo Krisna sotto l'aspetto mitologico, allora è da ritenersi una divinità originaria, conosciuta come «mandriano» (Gopàla), adorata da una tribù di pastori, la quale acquistò in seguito un'importanza fondamentale nel culto induistico e pervenne ad una popolarità ineguagliabile. Krisna, vivendo insieme a delle pastorelle che faceva danzare al suono del suo flauto, ne amò più di mille, ostentando le più raffinate pratiche erotiche. La sua prediletta era Radha, dal popolo venerata come sua sposa e amante preferita. Krisna morì ormai vecchio in una leggendaria circostanza: scambiato per una gazzella, fu ferito mortalmente da una freccia scagliata da un cacciatore, che lo colpì nel tallone, unico punto vulnerabile del suo corpo. Morto, salì al cielo, dove riprese la divina sembianza di Krisna.
• Attributi di Visnu nell'induismo. Il dio dimora nel Vaikuntha, in cima al monte Meru (l'Olimpo dell'induismo), sempre pronto a rispondere alle preghiere di coloro che gli offrono dei sacrifici.
Egli ha due spose: Lakshmi, dea della bellezza, e Bhumi-devi, dea della terra; la sua cavalcatura è l'uccello mitico Garuda. Egli ha come attributi la conchiglia, il disco, la mazza e il loto. Viene rappresentato in genere sotto forma di un giovane uomo a quattro braccia, con ogni braccio che brandisce uno dei suoi attributi, o anche steso, mentre riposa su Cesha, il serpente dalle mille teste.
• Gli avatara di Visnu. Visnu è un dio essenzialmente passivo. La respirazione di Visnu determina i cicli (kulpa) del mondo. Alla fine di ogni kulpa, il male trionfa nell'universo.
Allora Visnu esce dalla sua meditazione eterna e si incarna in un uomo, o in un animale, per lottare contro il male; queste incarnazioni sono chiamate avatara (avatara = «discesa»). Può anche delegare soltanto una parte di se stesso: è il vyuha o «spiegamento parziale».
I testi classici citano dieci avatara di Visnu, ma l'immaginazione popolare ne ha proposti molti di più.

Shiva – Nataraja
Shiva fra le deità del pantheon indiano è una delle più importanti, più antiche e più complesse. Trattare questa immagine del Divino in maniera esauriente è estremamente difficile, perché nei diversi culti assume diversi significati o aspetti. Pertanto se venisse trattato in maniera univoca vedremmo una serie di aspetti spesso in mutua contraddizione. In realtà la figura di Shiva è così importante in tutti i culti che riveste in ognuno di essi un'importanza non secondaria, portando quindi le diverse connotazioni in una analisi generale. Egli è insieme il distruttore e il restauratore, il primo degli asceti e il simbolo della sfrenata sensualità che turba le mogli degli asceti della foresta, è un benevolo pastore di anime e un pericoloso tentatore, è l'infanticida che uccide il figlio che la moglie Parvati ha creato dagli umori del proprio corpo, affinché ci sia qualcuno che tenga lontani i disturbatori, ma è anche quello che lo risuscita, una volta compreso l'errore, donandogli al testa di elefante e così la sapienza. Alcuni studiosi hanno visto nella sua figura la tipica tendenza nell'Induismo di racchiudere in un'unica figura ambigua delle qualità complementari. In realtà come abbiamo spiegato nella presentazione del Pantheon indiano, essendo mancato nella storia indù un potere insieme religioso e temporale che sterminasse gli avversari, nessuno ha mai stabilito quale fosse il canone del Divino e delle sue forme. Per trattare questa figura, la cosa migliore è trattarne gli aspetti principali uno per uno.
Simbolismo
La cavalcatura di Shiva, nonché l'animale a lui dedicato è il toro, Nandi. In ogni tempio di Shiva, di fronte al santuario principale, esiste una scultura di Nandi. Di solito nei templi e negli altari domestici, Shiva è adorato nella forma del lingam. A seconda del culto in cui viene rappresentato Shiva, nella sculture e nelle immagini, è di color bianco o del biancastro colore delle ceneri, con il collo blu (perché bevve il veleno di Vasuki per evitare la distruzione dell'umanità). I suoi capelli sono arrotolati e raccolti (jatamakuta) sulla somità del capo, adornati con la luna crescente e il fiume Gange (per ricordare come attenuò la caduta del Gange sulla terra). Ha quattro o cinque o tre occhi, con il terzo a simboleggiare la conoscenza interiore, ma capace di distruggere col fuoco ogni cosa quando rivolge o sguardo verso l'esterno. Gli Shivaiti lo raffigurano con la fronte solcata da tre linee orizzontali. Indossa una ghirlanda di crani umani e un serpente circonda il suo collo. Ha due o quattro mani che impugnano un tridente, un piccolo tamburo, una pelle di daino, un mazza con un cranio all'estremità, un'ascia o un fulmine. Talvolta indossa dei serpenti come bracciali.
Shiva rappresenta nei vari culti vari aspetti del Divino attraverso molteplici forme: lo vediamo in un pacifico ambito familiare con la consorte Parvati e il figlio Skanda; come danzatore cosmico (Nataraja); come asceta nudo e solitario, come mendicante; come yogi; come unione androgina con la sua consorte in un unico corpo, mezzo femminile e mezzo maschile (Ardhanarishvara). Viene spesso identificato con la Divinità vedica Ruda: il Terribile. Egli è anche Hara ("Colui che ottiene", cioè il tempo, o Bharava: "lo Spavento" dai sessantaquattro aspetti.
Gli epiteti più diffusi per indicarlo sono: Shambhu ("Benigno"), Shankara ("Benefico"), Pashupati ("Signore degli Animali"), Mahesha ("Grande Signore"), and Mahadeva ("Signore Supremo").
Shivaismo
Lo Shivaismo è uno dei principali culti indiani e Shiva in tale ambito viene considerato anche il Signore Supremo, in ambito metafisico, col termina Shiva si indica la stessa Realtà Assoluta a sinonimo di Brahman. Nell'ambito della Trimurti, il Dio persona (Iswara), Shiva è il principio dissolutore, mentre Vishnu è il principio di mantenimento e conservazione, mentre Brahma è i principio creatore (distinto dal Brahman inteso come Realtà Assoluta).

Shiva - Shankara
L'intervento positivo di Shiva nel mondo manifesto, per uno Shivaita è continuo. Mentre i culti Vaishnava (i culti di Vishnu) prevedono la venuta diretta di Vishnu nel mondo attraverso delle incarnazioni divine che possono avere o meno la pienezza dei poteri solitamente appartenenti alla Divinità stessa, nello Shivaismo il guru stesso che dona l'iniziazione e l'upadesha (insegnamento) è una incarnazione di Shiva. Shiva è presenza attiva nella vita del devoto e dell'aspirante. Nella mitologia generale, Shiva come aspetto della trimurti è noto come aspetto positivo per l'episodio che lo fa raffigurare con la gola blu e che ha portato all'epiteto di Nilakantha che significa proprio "gola blu".
Il colore bluastro viene attribuito anche ad una delle più adorate incarnazioni divine (avatara) di Vishnu: Krishna. In alcune immagini l'intero corpo di Shiva viene raffigurato di colore bluastro. Alcuni studiosi associano la colorazione al fatto che i culti di Shiva e anche Krishna fossero comunque prevedici e precisamente dravidici, e pertanto fossero raffigurati con il colore scuro della pelle. E' lo stesso principio per cui il palestinese Gesù Cristo è stato rappresentato per secoli con la carnagione chiara, gli occhi chiari e i capelli castani se non biondi.
La gola di Shiva divenne blu in occasione della sconfitta dei Deva da parte degli Asura. Normalmente col termine Deva si intendono gli Dei, mentre col termine Asura vengono indicati i demoni. In realtà inizialmente gli Asura erano anch'essi degli Dei, ma appartenenti al periodo prevedico e durante il Bramanesimo furono trasformati in entità negative dal clero. Lo stesso termine "demone" aveva durante il periodo classico ellenico in Occidente era tutto fuorché un ente negativo. Fu trasformato a simbolo del male dal cristianesimo per cercare di debellare ogni preesistente culto, nell'opera di attento sterminio delle Divinità delle popolazioni conquistate al sorgente culto semitico. Alcuni sostengono che lo stesso Shiva in realtà all'inizio appartenesse agli Asura, e dato che la sua enorme diffusione ne rendeva impossibile la sradicazione, fu portato al rango di divinità principale.
Dopo la sconfitta degli Dei, questi si rivolsero al Divinità creatrice, Brahma affinché fosse ristabilita la pace, questi li indirizzò da Vishnu, l'aspetto conservativo, che stabilì la pace e propose di aiutarli a conquistare l'amrita, la bevanda dell'immortalità. Per recuperare la coppa contenente l'amrita, si decise di battere il mare di latte primordiale con un zangola. Come bastone della zangola fu usato il monte Mandara e in luogo della corda il serpente Vasuki fu avvolto attorno al monte Mandara. Vishnu prese la forma di una tartaruga gigantesca per portare il monte in fondo al mare di latte. Gli Dei e gli Asura presero il serpente rispettivamente per la testa e per la coda e iniziarono a tirare. Il monte Mandara iniziò a zangolare il mare di latte, quando all'improvviso Vasuki, tirato da una parte e dall'altra, vomitò un fiotto di veleno, così abbondante da sembrare un torrente e rischiando di sterminare tutti gli Dei. Il getto colpì la mano di Shiva che lo raccolse e lo ingoiò tutto, rimanendo sulla sua gola un segno bluastro. In quell'occasione dal mare uscirono Airavata, l'elefante bianco cavalcatura di Indra; il rubino Kaustubha che orna il petto di Visnu; la vacca Kamadhenu, simbolo dell'abbondanza; la bellissima Lakshmi circondata dalle Apsara, le divine cortigiane; Dhavantari, il dio dalla pelle scura che portava la coppa contenente l'amrita.

2  – I Veda
I Veda (in alfabeto devanāgarī वेद[1], sanscrito vedico Vedá) sono un'antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri  dei popoli  arii che  invasero intorno al  XX secolo a.C.  l'India  settentrionale,  costituenti la  civiltà religiosa vedica, divenendo, a partire della nostra era, opere di primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo[1].
Il termine sanscrito vedico veda indica il "sapere", la "conoscenza", la "saggezza", e corrisponde all'avestico vaēdha, al greco antico οδα (anticamente ϝοδα, da leggere "voida"), al latino video.
La letteratura vedica origina da un popolo, gli Arii, che intorno al 2200 a.C. migrò verso l'India nord-occidentale (allora indicata come Saptasindhu सप्त सिंधु, Terra dei sette fiumi, in avestico Hapta Hindu) provenendo dall'area di Balkh (oggi in Afghanistan settentrionale). Un altro raggruppamento di questo popolo, gli Iranici, sempre provenienti dalla medesima area, invase invece l'attuale Iran fondandovi una cultura religiosa che successivamente fu in parte raccolta nell'Avesta. Fu dunque nell'area dell'Afghanistan settentrionale che i Veda acquisirono le loro prime caratteristiche religiose e linguistiche[2].
Elemento centrale delle credenze religiose degli Arii era lo ta (in alfabeto devanāgarī ऋत, in avestico Aša) ovvero la Legge cosmica, e il suo "guardiano" Asura Varua (वरुण devanāgarī, avestico Ahura Mazdā), concentrandosi il sacrificio religioso nella bevanda sacra, il soma (सोम devanāgarī, avestico haoma) e sul rito del fuoco (devanāgarī अग्नि agni, avestico āthra).
Con l'ingresso di questi popoli Arii nell'India settentrionale, e con i conseguenziali scontri militari con le popolazioni autoctone, acquisì rilievo religioso l'eroico dio guerriero Indra (इन्द्र).
Mentre con il successivo accoglimento anche di culti autoctoni, spesso fondati su pratiche sciamaniche e sull'utilizzo di formule magiche (mantra, मन्त्र), la cultura religiosa degli Arii si sviluppò e si diffuse sul territorio indiano in quelle caratteristiche che saranno poco dopo organizzate dai "cantori" (devanāgarī: ऋषि ṛṣi) dei primi due Veda: il gveda e alcune parti dell' Atharvaveda (2000-1700 a.C.).
La raccolta dei Veda consiste
  • nelle quattro Saithā (संहिता): gveda (ऋग्वेद), Sāmaveda (सामवेद), Yajurveda (यजुर्वेद) e Atharvaveda (अथर्ववेद), composte tra il 2000 a.C. e il 1100 a.C.[4];
  • nei Brāhmaa (ब्राह्मणं), commentari alle quattro saithā composti tra il 1100 a.C. e l'800 a.C.;
  • nelle Ārayaka (आरण्यक), testi esoterici riservati agli eremiti delle foreste o comunque recitati al di fuori del contesto dei villaggi, composte tra il 1100 e l'800 a.C.;
  • nelle Upaniad (उपिनषद), opere di ulteriore approfondimento composte tra l'800 e il 500 a.C.;
  • nei Sūtra (सूत्र) e nei Vedāga (वेदाङ्ग), opere di codificazione dei riti, composti dal 500 a.C. in poi.
Va tenuto presente che questa suddivisione è quella universalmente considerata dagli studiosi di questa letteratura religiosa. In un significato più stretto, e più comune, per Vedà si intendono solo i quattro saithā, mentre dal punto di vista tradizionale solo i primi quattro raggruppamenti (i quattro Saithā, i Brāhmaa, gli Ārayaka e le Upaniad) sono considerati apaurueya, ovvero non composti dagli esseri umani e quindi appartenenti alla Śruti.

 3 - Vyasa
Vyāsa (o Vyāsadeva, solitamente anglicizzato in Vyasa) è una figura molto importante nella religione e letteratura induiste; egli è un rishi, un grande saggio, tuttavia la sua condizione si può considerare pari a quella delle varie divinità. Come Hanuman, è ritenuto essere immortale poiché è uno dei sette Chiranjeevin. Inoltre è un avatar secondario di Viṣṇu, noto anche come l'Avatar scrittore. Vyāsa è considerato il Brahmarishi ideale, onnisciente, veritiero, il più puro tra i puri, il perfetto conoscitore dell'essenza di Brahman. Compare in modo anacronistico in numerosi testi, dall'Induismo più antico a quello più moderno. Gioca un ruolo molto importante non solo nella letteratura, ma anche nella fede di molti credenti indù.

L'organizzatore dei Veda

La tradizione vedica vuole che, prima dell'apparizione del saggio Vyāsa, le persone comuni potessero ricordare i Veda a memoria, anche ascoltandoli una sola volta, riuscendo a capirne anche tutte le implicazioni. Ma nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale), nella quale la durata della vita e la memoria si sono notevolmente ridotte, gli individui sono spiritualmente meno acuti; per questa ragione Vyāsa discese nel mondo, e per servizio all'umanità, mise i Veda in forma scritta e li divise in quattro parti, compose tutti i 18 Purana (specialmente il Bhagavata Purana); egli è inoltre ritenuto l'autore del Vedānta Sutra, un importante testo Vedico che concilia versi delle Upaniad in apparente contraddizione tra loro. Poiché a Vyāsa è attribuita la meritevole impresa che permise all'uomo moderno di comprendere la divina conoscenza dei Veda, egli viene anche chiamato Veda Vyāsa, o "suddivisore dei Veda" (la parola vyāsa infatti può significare "dividere", "differenziare", o "descrivere").

Autore e personaggio del Mahābhārata

È anche l'autore nonché il narratore stesso del Mahābhārata, e si ritiene che abbia domandato a Gaeśa di scrivere il poema sotto la sua dettatura. Gaeśa impose la condizione che Vyāsa avrebbe dovuto recitare senza mai fermarsi, ed il saggio pose la condizione ulteriore che Gaeśa avrebbe dovuto comprendere ogni verso prima di trascriverlo. Questa storia dovrebbe spiegare la ragione del complicato sanscrito con cui è scritto il Mahābhārata.
Proprio in questo poema si narrano anche le sue origini. Vyāsa è stato concepito da Sathyavati, figlia di un traghettatore, e dal saggio errante Parashara; nacque su un'isola lungo il fiume Yamuna. Divenne in seguito il padre dei principi Dhritarashtra e Pandu, avuti rispettivamente da Ambika e Ambalika, le mogli del re Vichitravirya; ebbe anche un terzo figlio, Vidura, avuto da un'ancella delle due regine.
Inoltre Vyāsa fu il nonno di entrambe le fazioni belligeranti del Mahābhārata, i Pandava ed i Kaurava. Egli fa apparizioni occasionali lungo la storia, rivestendo il ruolo di guida spirituale per i giovani prìncipi.
Durante la guerra di Kurukshetra, Vyāsa infuse a Sanjaya (un saggio alla corte del re cieco Dhritarashtra) un potere mistico che gli avrebbe permesso di vedere a distanza gli avvenimenti nel campo di battaglia, in modo da poterli raccontare al suo sovrano, preoccupato per l'esito della battaglia tra i suoi figli (i Kaurava) ed i nipoti Pandava.

4 - Upaniad
Le Upaniad (sanscrito, sostantivo femminile, devanāgarī: उपानिषद) sono un insieme di testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniad vediche) anche se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere aventi questo nome.Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656 quando il sultano musulmano Dara Shikoh (1615-1659) ordinò la traduzione dal sanscrito al persiano di cinquanta di esse e quindi la loro resa in forma scritta[1].
Il termine Upaniad deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali.
Questo termine richiama chiaramente, come evidenziato da Mario Piantelli[2], anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che persino la Bhagavadgītā si qualificava come upaniad nel colophon dei manoscritti del Mahābhārata e che, evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara, le persone di bassa casta[3] che l'avessero ascoltata avrebbero subito la stessa sorte di coloro che avessero ascoltato le Upaniad senza averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle orecchie. Questo spiega la ragione per cui le Upaniad non furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per via orale solo a persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniad sono, dunque, commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché loro 'fine', nel senso di completamento dell'insegnamento vedico; per questo motivo sono anche conosciuti come Vedānta (Fine dei Veda) e sono alla base del pensiero religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di Induismo.

5 - I Purā
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I Purāa (Devanāgarī: पुराण; "antico") sono un gruppo di testi hindū di carattere principalmente celebrativo e cosmologico, il cui scopo primario si configura come l'educazione religiosa dei non dvija (ossia śudra e donne), ai quali non era permesso lo studio del Veda. Questi testi affondano probabilmente le loro radici in un passato molto remoto, essendo un vero e proprio ricettacolo di saperi e leggende tradizionali, originariamente narrate da bardi chiamati sūta.
I Purāa cominciarono ad essere sistemati e poi redatti dall'élite brahmanica a partire dal IV-V secolo d.C.; ciononostante non hanno mai raggiunto una forma definitiva e sono stati continuamente interpolati. Le edizioni a stampa (e forse ancor di più quelle critiche) sono state accolte con riprovazione dagli ambienti hindū, i quali considerano tuttora legittima nonché necessaria la continua modificazione di questi testi al fine di mantenerne intatta l'aderenza culturale e religiosa in ogni tempo, possibilità che verrebbe ovviamente minata da una fissazione definitiva. Proprio per il carattere "aperto" che contraddistingue i Purāa, oltre che per la tendenza a fondere al loro interno testi diversi di natura eterogenea, è impossibile tentare di risalire alle fasi originarie di queste opere. L'inglobamento di certi materiali piuttosto che altri all'interno di un dato Purāa dipese (e dipende tuttora) e dall'appartenenza religiosa dei curatori a una data setta e da questioni di necessità territoriale (l'inclusione o esclusione di un dato testo dipendeva cioè dall'esigenza della trasmissione di un certo insegnamento piuttosto che un altro nella zona in cui il Purāa veniva redatto): ciò dà conto del carattere spesso fortemente regionale di questi testi.

Numerose considerazioni ed interventi dei soci presenti hanno evidenziato l'interesse per il tema trattato.
Il suono della campana ha posto fine all'incontro.

                                                                                              A cura di Massimo Audisio