giovedì 23 febbraio 2012

Incontro con Don Giampiero Alberti "Religioni a Milano"



Se religione significa: condivisione; capacità di ascolto; interesse nell’altro; modestia; studio ed approfondimento; credo che Don Alberti ce ne abbia dato un magnifico saggio nella serata del 23 febbraio 2012.

Il tema trattato “Religioni a Milano con particolare attenzione ai Musulmani” è a dir poco scottante ma è stato affrontato con estrema serenità dall’oratore che ha raccontato, in un condensato molto ristretto, 25 anni di esperienze trascorse in una attività di affiancamento ed integrazione di molti “nuovi” cittadini della nostra comunità. Don Alberti ha descritto questo lavoro interreligioso di ricerca condotto, all’inizio secondo schemi anche molto approssimativi in quanto non si erano dotati di metodi sperimentati, attraverso l’incontro con persone che provenivano da altre culture e professavano altre religioni.

E’ chiaro a tutti che il processo di integrazione, soprattutto a livello religioso, ci vede tutti coinvolti, non si tratta di una questione privata che riguarda pochi singoli. Dal 1970 in poi in tutta Europa ed anche in Italia sono arrivate centinaia di migliaia di persone (ormai molti milioni) che hanno inciso molto sulla nostra cultura.

Con queste persone sono arrivate le loro religioni e le loro abitudini culturali; Islam, Buddismo, Induismo, sono solo pochi esempi delle tante religioni che si sono radicate nel nostro paese, alcune vengono praticate anche da ex cristiani che, non trovando nella nostra religione la profondità attesa, si sono rivolti ad altri credo. A Milano solamente si contano tra 10 e 12.000 Buddisti.

Storicamente, afferma Don Alberti, negli anni ’90 inizia una forma di organizzazione
strutturata di questi movimenti religiosi. In questi anni la diocesi di Milano era guidata dal Cardinal Martini il quale (come ricorda Don Alberti) usava dire: “ noi e l’islam, questa strana provvidenza che ci interpella!”, indubbiamente un’affermazione che fa molto meditare anche in considerazione delle scelte che il Cardinale ha fatto al termine del suo mandato. Da quel tempo è incominciata un’attività di osservazione, di monitoraggio oltre che di avvicinamento e di scambio. E’ stato possibile verificare che esistono molti gruppi diversi di Musulmani ed i diversi gruppi si concentrano in centri diversi.

E’ emerso che c’è molta poca conoscenza reciproca, sia tra i diversi gruppi, sia tra gli
Islamici ed il nostro popolo. E’ difficile stimolare momenti di riflessione comune sia ad alto livello culturale sia livello culturale più modesto. Occorrerebbe avere maggiore fiducia gli uni negli altri e cercare di percorre la lunga e tortuosa strada che porta dalla multietnicità alla iteretnicità.

Lo scetticismo non è solo da una delle parti; il Popolo Musulmano ha molti problemi perché teme di perdere la propria identità e quindi si chiude nel proprio sistema e nel proprio integralismo usandolo come corazza più che come credo. Nonostante tutte queste problematicità e complessità lo sguardo di Don Alberti e verso il futuro:
“dobbiamo cercare di incontrarci ed avere scambi sui concetti profondi della vita”
“le Religioni hanno in comune l’amore verso Dio e verso il Prossimo”.

Su questi principi si può incominciare a costruire un sistema di convivenza migliore. Prima del tocco della campana non sono mancati interventi che hanno scaldato la platea come in un derby. Fortunatamente le argomentazioni e le maniere erano di tutt’altro profilo.
A cura di Aldo Bottini

martedì 7 febbraio 2012

Incontro con il socio Pietro Pizzoni "i 75 giorni delle Falkland"


Giovedì 2 febbraio 2012 il socio Pietro Pizzoni ci ha ampiamente raccontato di una strana guerra che vide la contrapposizione di Gran Bretagna e Argentina durante il 1982. Oltre all’accurato inquadramento storico e politico complessivo la relazione si è soffermata su alcuni episodi che forse sono stati determinanti per lo sviluppo del conflitto e per la sua conclusione.

Le isole Falkland si trovano in Atlantico di fronte alla punta meridionale del continente americano, a circa 400 miglia ad est dello stretto di Magellano. Sono un arcipelago composto di un paio di centinaia di isolotti e scogli disabitati e di due frastagliatissime isole maggiori chiamate West e East Falkland o, con il più fantasioso appellativo spagnolo, Gran Malvina e Soledad separate tra loro dal Falkland Sound. Il clima è non è dei migliori, molto piovoso, con i gelidi venti provenienti dall’Antartico che spazzano le isole prive di alberi. La pastorizia costituisce l’unica attività per i circa 1800 abita nti di origine scozzese (chiamati kelpers, da kelp, il nome di u n’alga) concentrati quasi tutti a Soledad, di cui metà nella capi tale Port Stanley. L’arcipelago fa parte delle Falkland Islands Dependencies insieme alle desolatissime ed inabitate isole della Georgia Australe e delle Sandwich, Orcadi e Shetland Australi, tutte site più a sud. Le isole furono più volte avvistate nel XVI e XVII secolo da avventurosi navigatori che ne segnalarono la posizione più o meno esatta, ma il primo a sbarcarvi fu l’inglese John Strong nel 1690 che gli diede il nome di Falkland. Il celebre navigatore francese Louis Antoine de Bougainville le visitò e ne prese possesso nel 1763 e per onorare molti dei suoi marinai provenienti da Saint-Malo le battezzò îles Malouines, da cui lo spagnolo Malvinas. Nel 1766, a seguito delle proteste spagnole, la Francia cedette le Malvine alla Spagna come compensazione per le perdite subite dalla sua alleata nella disastrosa guerra dei Sette Anni contro gli inglesi; quando l’Argentina divenne indipendente dalla Spagna ereditò la sovranità sulle isole e iniziò a colonizzarle. Nel 1833 la Gran Bretagna, per poter controllare la rotta verso Capo Horn, fece valere i propri diritti di scoperta e mandò una spedizione che si impadronì delle isole, cacciando il governatore argentino. All’epoca delle navi a carbone, il capoluogo Port Stanley, situato in una baia riparata dai venti, divenne un’importante base di carbonamento. L’Argentina non rinunciò mai alla sovranità sulle Malvine ma non intraprese mai delle particolari azioni diplomatiche per recuperarle. Le isole sono balzate alla ribalta della storia un’unica volta nel dicembre 1914 quando in quelle acque la squadra tedesca dell’Estremo Oriente agli ordini dell’ammiraglio conte von Spee, nel suo periglioso tentativo di raggiungere la Germania, fu distrutta da una più potente squadra inglese al comando dell’ammiraglio Sturdee, inviata di gran fretta dal Primo Lord dell’Ammiragliato W. Churchill per vendicare la sconfitta subita il mese precedente nella battaglia di Coronel, di fronte alle coste cilene, la prima subita dalla Royal Navy dopo secoli di vittorie ininterrotte. Fu il dittatore J. D. Peron nel 1954, un anno prima di essere estromesso dal potere da un colpo di stato militare, che iniziò a sviluppare una campagna propagandistica che presentava le Malvine e la Georgia Australe come parte integrante del territorio argentino, facendo votare dal Parlamento una risoluzione in tal senso. Nel 1964 la vertenza approdò alle Nazioni Unite e l’anno successivo le Falkland-Malvine furono inserite nella lista dei territori conquistati in epoca coloniale dove la potestà era stata tolta alle popolazione originarie. La Gran Bretagna ha sempre reagito respingendo la tesi e invocando il principio dell’autodeterminazione degli abitanti.
Nel 1976 ci fu un nuovo colpo di stato militare e il potere fu preso dal comandante dell’esercito generale Videla che diede il via ad una feroce repressione degli oppositori, sia di sinistra sia peronisti. A Videla successe il generale Viola e poi il generale Galtieri. Il regime militare, per distrarre il paese dalla repressione interna e dal progressivo peggioramento dell’economia, esasperò i toni nazionalisti della contesa. Un’avvisaglia di quanto stava per succedere c’era stata quando, nel marzo 1982, un gruppo di militari argentini, travestiti da operai mandati per recuperare i rottami metallici di una base baleniera nella Georgia del Sud, aveva issato una bandiera argentina. Degli scontri molto gravi erano avvenuti quando un piccolo guardacoste era stato inviato per ristabilire la legalità, ma il ministero degli Esteri non si era seriamente preoccupato dell’avvenimento e non aveva saputo trarre delle conclusioni, anche se ormai erano state segnalate delle manovre di concentrazione delle forze navali argentine. L’unico provvedimento preso fu di inviare il 27 marzo il sommergibile nucleare d’attacco Spartan in zona per monitorare la situazione. Nel pomeriggio del 2 aprile 1982, quando una task force argentina si presentò davanti a Port Stanley, nessuna azione di contrasto poteva essere intrapresa. I satelliti spia americani avevano segnalato l’inizio dell’operazione solamente il giorno prima suggellando una grave sconfitta per il Foreign Office e i servizi segreti inglesi, e per quelli americani pure. Il generale Mario Benjamin Menendez sbarcò le sue truppe costringendo alla resa la piccola guarnigione di Royal Marines – che non rinunciarono al beau geste di sparare qualche colpo e di ferire alcuni invasori – e la capitale fu ribattezzata Puerto Argentino. Contemporaneamente fu occupata la Georgia del Sud ed anche in questo caso i ventidue marines lasciati di guarnigione reagirono con le armi prima di arrendersi. Il generale Leopoldo Fortunato Galtieri aveva portato il suo colpo ed adesso si mise ad aspettare la reazione britannica.

Le forze in campo. La Giunta militare argentina contava di mettere il governo britannico di fronte al fatto compiuto e di trascinarlo in una contesa diplomatica, avendo però in mano la carta potente del possesso delle isole. Contava sulla solidarietà dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), sull’applicazione da parte degli Stati Uniti della dottrina Monroe (“l’America agli americani”), sulla volontà del presidente Reagan di
mantenere il continente americano lontano da una possibile, in caso di
contrasto, interferenza sovietica e sulle difficoltà della Gran Bretagna ad
imbastire una reazione militare a così lunga distanza dalle sue basi. In
effetti il governo di Margaret Thatcher aveva da tempo, per motivi di bilancio,
mutato la dottrina di intervento della Royal Navy abbandonando ogni velleità di
difesa imperiale. Adesso le risorse, integrate nelle dottrine difensive della
NATO, erano state dirottate sulla risposta nucleare basata sui quattro sommergibili atomici della classe Resolution armati di missili Polaris e l’ultima delle grandi portaerei, l’Ark Royal con i suoi caccia Phantom, era stata mandata in disarmo. Delle forze armate argentine i servizi d’informazione
sapevano tutto. La Marina possedeva una portaerei leggera, la Veinticinco de
Mayo, fabbricata dagli inglesi con il nome di Venerable durante l’ultimo
conflitto mondiale, e un paio di moderni caccia lanciamissili, per il resto
relitti antidiluviani e naviglio minore: quindi non costituiva alcun problema
ed era destinata a restare chiusa in porto per timore dei sommergibili britannici. Però recentemente l’Aviazione di Marina aveva acquistato dalla Dassault francese quattordici bombardieri Super Étendard, di cui sette già operativi, armati però solamente di cinque Exocet, i micidiali missili
anti-nave.
La Fuerza Aerea Argentina (FAA) era ben organizzata e
poteva contare su un buon numero di aerei moderni, ma era addestrata alla
guerra terrestre e non era preparata ad una guerra aeronavale. Pochissimi aerei
possedevano l’apparecchiatura per il rifornimento in volo e c’erano solamente
su due aerei cisterna. Gli aerei d’attacco erano una novantina di bombardieri
Skyhawk, una cinquantina di intercettori Mirage III e Dagger (copia israeliana
del francese Mirage). Inoltre erano disponibili una cinquantina di Pucarà
(aereo biturbina leggero anti guerriglia di costruzione argentina) e una
dozzina di addestratori Macchi MB.339, aerei che potevano essere trasformati
facilmente in bombardieri, sia pure con un ridotto carico bellico.
L’Esercito aveva in dotazione un’ampia varietà di armamenti moderni, che naturalmente furono portati sull’isola di Soledad dove si concentrò la resistenza argentina: carri armati leggeri francesi AMX e i TAM di fabbricazione argentina, blindati francesi e americani per il trasporto
truppe, autocarri e fuoristrada Mercedes adattissimi per i tratturi dell’isola,
cannoni Bofors, OTO-Melara e Breda, sistemi anti-missili, missili anti-nave
Exocet. La preoccupazione maggiore per gli inglesi era che la conquista di
Soledad costasse molte perdite alla loro fanteria, ma non tardarono a scoprire
che gran parte del presidio di occupazione, circa 10.000 uomini come si apprese
in seguito, era costituito da poco bellicosi soldati di leva.
La Gran Bretagna prese rapidamente le sue decisioni: il 4 aprile ci fu una riunione dell’Esecutivo a Downing Street. La premier Thatcher, contando sulla solidarietà del presidente Reagan e sull’assicurazione dello
Stato Maggiore in merito al successo dell’operazione, prese la decisione – in
puro stile Churchill, l’uomo politico che tanto ammirava – di inviare una spedizione
a riconquistare le Falkland, confermando l’appellativo di Iron Lady che la
stampa le aveva affibbiato. Il giorno successivo tagliò la testa del ministro
degli Esteri Lord Carrington, colpevole di non aver saputo prevedere
l’invasione.
Le risorse della nazione furono mobilitate. Il nerbo della spedizione era composto dalla portaerei leggera Invincible e dalla vecchia portaerei d’assalto Hermes, ambedue armate di aerei a decollo verticale Sea-Harrier e di elicotteri; poi c’erano 2 navi d’assalto anfibie, 8 caccia
lanciamissili, 15 fregate e 6 navi da sbarco insieme a numerose navi cisterna e
da rifornimento della Royal Navy. Inoltre furono requisite per la spedizione
più di 40 navi mercantili tra portacontainer, navi traghetto e cisterne, senza
dimenticare i transatlantici, due per il trasporto truppe, tra cui il Queen
Elisabeth II da 67.000 tonnellate, e uno trasformato in nave ospedale. Già il 5
aprile le prime navi iniziarono a partire. Furono anche inviati, per bloccare
le coste argentine, sei sommergibili di cui cinque nucleari. La Royal Air Force
mise a disposizione uno squadrone di Harrier, bombardieri Vulcan – superati ma
ancora adatti ad operare in quelle circostanze – con base nell’isola di
Ascensione situata nel centro dell’Atlantico meridionale, aerei Nimrod per la
ricognizione, aerei di rifornimento Hercules e gruppi di elicotteri.
L’esercito inviò quanto di meglio aveva a disposizione: due gruppi corazzati del chicchissimo reggimento Blues and Royal con un ampio supporto d’artiglieria, due Commando dei Royal Marines, alcune squadre di forze speciali del famoso Special Air Service (SAS) e del meno conosciuto ma
altrettanto micidiale Special Boat Squadron (SBS) specializzato in operazioni
anfibie, due battaglioni del Parachute Regiment e una Brigata di fanteria su
tre battaglioni: 2nd Scots Guards, 1st Welsh Guards e 1° Battaglione del 7th
Duke of Edinburgh’s Own Gurkha Rifles.
Non fu naturalmente trascurata l’iniziativa diplomatica.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una Risoluzione che intimava all’Argentina il ritiro immediato dall’arcipelago invaso, senza che l’URSS ponesse il suo veto. Il Segretario di Stato americano Haig iniziò tra l’8 e il 19 aprile una serie di viaggi a Londra e a Buenos Aires, cercando di far approvare un compromesso tra sovranità e amministrazione. Alla fine dovette
ritirarsi dopo aver costatato la rigidità delle parti: l’Argentina chiedeva che
preliminarmente fosse riconosciuta la sua sovranità sulle Malvine; la Gran
Bretagna voleva che fosse ritirata la forza d’occupazione dalle Falkland.
Reagan non mancò di far conoscere a Galtieri la sua forte irritazione. In seno
all’OSA c’erano molte simpatie per la posizione argentina – Cuba divenne
un’accanita sostenitrice delle ragioni del regime militare violentemente
anti-comunista – ma la clamorosa azione di sbarramento di un’ex colonia
britannica, Trinidad e Tobago, le antiche ruggini tra gli stati sudamericani e
l’irritazione americana impedirono che queste simpatie si traducessero in una
decisiva ed efficace azione diplomatica. La Comunità Economica Europea dichiarò
l’embargo delle forniture militari e applicò delle sanzioni economiche
all’Argentina chiedendo il rispetto della Risoluzione dell’ONU.
La nazione sudamericana, trovandosi priva di alleati che
la potessero aiutare concretamente, si rivolse all’URSS che colse naturalmente
l’occasione di creare una frattura nel mondo occidentale. I sovietici non
avevano l’intenzione e la possibilità di impegnarsi militarmente in una zona
così lontana e offrirono quello che avevano a disposizione: informazioni. La
flotta inglese era costantemente seguita da sottomarini e navi-spia sovietiche
che inviavano rapporti su quanto riuscivano a captare e, durante il periodo
della crisi, furono lanciati dal cosmodromo di Baikonur nello spazio sette
satelliti fotografici o per intercettazione di frequenze radio e radar. Tutte
le informazioni sul dislocamento della flotta arrivavano dall’URSS a Luanda in
Angola e da qui all’ambasciata sovietica a Buenos Aires che le trasmetteva allo
Stato Maggiore argentino. Analoga azione era naturalmente effettuata dagli
Stati Uniti a favore della Gran Bretagna.
Il maggior successo ottenuto dal regime militare fu l’appoggio incondizionato dell’opinione pubblica nazionale. Tutto il paese si strinse intorno al governo, simbolo della Nazione, schierandosi a favore
dell’occupazione delle Malvine: i rivoluzionari Montoneros alla macchia sospesero
la guerriglia, le madri dei desaparecidos, vittime dell’azione violenta del
regime, bloccarono la loro protesta e l’iniziativa propagandistica di “donare
l’oro alla patria” raggiunse un indubbio buon risultato.

Le azioni preliminari. Mentre la flotta britannica con il suo treno logistico – il più imponente dalla fine della Seconda guerra mondiale – si stava trasferendo nelle acque dell’isola di Ascensione, il governo inglese prese delle decisioni volte ad impedire agli argentini di poter continuare a
rifornire la guarnigione. A partire dal 12 aprile, fu annunciato che una fascia
di 200 miglia intorno alle Falkland sarebbe stata considerata zona di guerra, con tutte le
conseguenze per le navi che si avventuravano in quelle acque; l’8 maggio il
blocco navale fu esteso fino al limite delle 12 miglia, le acque
territoriali argentine. La seconda disposizione fu di estendere la zona di
interdizione allo spazio aereo. Questa gradazione di annunci, volta ad intimidire gli avversari, aveva anche lo scopo di stimolare l’azione diplomatica così come,
probabilmente, la prima azione di guerra. Il 25 aprile una task force inglese
si presentò al largo della Georgia del Sud, gli elicotteri colpirono il
sommergibile Santa Fe, che fu fatto arenare dall’equipaggio, e i marines
sbarcarono catturando il presidio.
I generali della giunta non reagirono a queste azioni
così come si limitarono a prendere atto che Washington interrompeva
ufficialmente i suoi sforzi di mediazione tra le parti e che Reagan, parlando
con la stampa, definiva ormai gli argentini come “aggressori”. Forse, pensavano
che non essendo ancora partiti dall’Inghilterra i transatlantici con le truppe
a bordo di avere ancora del tempo a disposizione ma una decisione durissima
presa dalla signora Thatcher li obbligò a reagire.
Il 2 maggio, un mese esatto dopo l’invasione, il
sommergibile nucleare Conqueror riferì che l’incrociatore General Belgrano,
scortato da alcune navi minori, si trovava nello spazio marittimo tra la Terra
del Fuoco e le Falkland a circa 36 miglia fuori dalla zona di interdizione e
sembrava fare rotta verso l’arcipelago. L’incrociatore era l’ex americano
Phoenix, varato nel 1938 e per quanto rimodernato non costituiva una grande
minaccia, anche se contemporaneamente da nord si stava muovendo la Veinticinco
de Mayo, come se volessero prendere a tenaglia la flotta inglese. Il Gabinetto
di Guerra diede l’ordine al sommergibile di affondare la nave nemica. Un paio
di siluri colpirono il General Belgrano che iniziò in breve tempo ad affondare
mentre gli oltre mille uomini d’equipaggio scendevano nelle poche lance di
salvataggio e zattere che erano riusciti a calare o si buttavano nelle acque
gelide. Le unità di scorta si allontanarono per non essere colpite a loro
volta. Le conseguenze furono che 321 marinai persero la vita. Un’ondata di
furore colpì l’Argentina con i giornali che accusavano gli inglesi di
assassinio e con l’opinione pubblica che chiedeva vendetta. I militari decisero
a questo punto di reagire mettendo a segno un colpo che colse gli avversari
completamente di sorpresa

I primi scontri. Nel pomeriggio del 4 maggio, un martedì, il caccia lanciamissili Sheffield, un’unità di 4100 tonnellate con sette anni di vita, precedeva insieme ad altri caccia come nave di picchetto radar la flotta di una trentina di miglia. Sugli schermi radar improvvisamente apparvero
a una sessantina di miglia le tracce di aerei in avvicinamento. Dopo neanche un
paio di minuti gli apparati segnalarono di aver captato la trasmissione di un
radar di guida puntato: un missile si stava dirigendo contro il caccia. Il
comandante fece accostare d’urgenza la nave nel tentativo di offrire un
bersaglio più ridotto ma nei pochi secondi che mancavano all’impatto non ci fu
tempo per lanciare il chaff (striscioline metalliche destinate a creare falsi
echi sui radar avversari) e i fires (artifici pirotecnici che producono energia
infrarossa che attrae i missili) o per localizzare l’attaccante sui radar di
tiro del sistema missilistico terra-aria Sea Dart. Il missile fu visto arrivare
velocissimo, quasi alla velocità del suono, sul pelo delle onde a dritta dello
Sheffield, penetrò nello scafo ed esplose trasformando il caccia in un rogo
infernale che costrinse l’equipaggio ad abbandonare la nave quando le fiamme si
avvicinarono al deposito dei missili. Una ventina di marinai risultarono
dispersi. Dopo sei giorni di inutile lotta contro l’incendio, il relitto
lentamente trainato verso l’Antartico affondò.
Era stata una coppia di Super Étendard, riforniti in volo
da un aereo cisterna, ad avvicinarsi alla velocità di 1200 chilometri
orari, volando bassissimi per essere individuati dai radar il più tardi
possibile, a lanciare i loro missili Exocet. Questo missile, che vola a 2-3 metri dalla superficie
del mare, è del tipo fire-and-forget in quanto il pilota dell’aereo, una volta
eseguito il puntamento ed acquisito il bersaglio sul suo radar, si può
dimenticare del missile lanciato che procede autonomamente puntando al
bersaglio. La fregata Yarmouth, che aveva avuto qualche momento in più a
disposizione, era invece riuscita ad attivare le contromisure elettroniche e a
deviare il missile a lei destinato.
La perdita dello Sheffield dimostrò che non si sarebbe
trattato di una passeggiata. La task force britannica mancava di ricognitori.
Gli aerei Nimrod non erano ancora arrivati e avrebbero comunque dovuto operare
da Ascensione a tremila miglia di distanza con limiti di autonomia. Gli inglesi
non avevano i Boeing 707 AWACS come gli americani o una portaerei da cui
lanciare i ricognitori E-2C Hawkeye: le navi di picchetto radar costituivano loro stesse degli ottimi
bersagli – come accadde pochi giorni dopo al caccia lanciamissili Glasgow che
rimase gravemente danneggiato da una bomba che non era esplosa – ma erano
l’unica soluzione che avevano a disposizione, anche se le stecche dell’ombrello
di avvistamento protettivo erano troppo larghe e permettevano agli avversari di
penetrare in profondità.
Gli inglesi presero a bombardare i pochi obiettivi dell’arcipelago – Port Stanley con il suo aeroporto e le apparecchiature radar intorno alla capitale – con i Sea-Harrier e i Vulcan e a sbarcare gruppi di
incursori per conoscere il terreno e la disposizione delle forze. Gli avversari
reagirono con continui raid, riuscendo a danneggiare un paio di fregate in modo
non definitivo, mentre nei duelli aerei
i Sea-Harrier mostravano di poter
contrastare validamente le incursioni
dei temuti Mirage e Dagger, che riuscivano ad operare sull’arcipelago per pochi
minuti al limite della loro autonomia. Gli Harrier erano più lenti degli
intercettori nemici ma possedevano una grande manovrabilità. Potevano quindi
evitare facilmente gli avversari che volavano ad alta velocità e potevano
attaccare anche frontalmente con i loro missili Sidewinder aria-aria a guida
termica. La loro relativa velocità li rendeva invece più vulnerabili alla
contraerea argentina: i dieci caccia persi dagli inglesi alle Falkland furono
tutti abbattuti da missili terra-aria o dal fuoco contraereo. La ricognizione
scoprì che gli argentini avevano creato un paio di piste di volo da cui
potevano decollare i piccoli bombardieri Macchi e Pucarà che avevano trasferito
dal continente. Il 14 maggio un gruppo di incursori appartenenti al SAS e al
SBS attaccarono una di queste piste, posta nell’isolotto di Pebble,
distruggendo sei Pucarà, altri quattro piccoli aerei e un deposito di
munizioni, per poi allontanarsi a bordo degli elicotteri.

Le operazioni terrestri. Ormai tutto era pronto per
l’attacco a terra. Gruppi di SBS erano sbarcati a Soledad per dirigere da terra
il fuoco di preparazione delle navi. Il 21 maggio nella baia di San Carlos,
sulla costa nord occidentale dell’isola all’imbocco del Falkland Sound, dalla
parte opposta di Port Stanley, le prime unità di marines e di paracadutisti
sbarcarono dagli elicotteri. La resistenza dei fanti argentini fu poca cosa:
gli attaccanti, con la perdita di 48 soldati, ottennero la resa dell’intero
presidio, un migliaio di soldati. La tattica che gli argentini stavano attuando
non era per nulla flessibile, in quanto prevedeva la difesa dei punti di sbarco
solamente con postazioni statiche, senza far intervenire i temuti carri armati
– le loro armi migliori di cui avevano la superiorità almeno nei momenti
iniziali dello sbarco – che restarono concentrati nella parte orientale
dell’isola intorno alla capitale. L’unica reazione venne dall’aviazione. Ondate
di Mirage, Dagger e Skyhawk si riversarono dal continente contro le navi che
difendevano le zone di sbarco. Furibondi duelli aerei si svolsero nel cielo con
i Sea Harrier che prevalevano sugli avversari, mentre salve di missili
antiaerei erano lanciate sopra la testa di ponte. Il transatlantico Canberra,
che trasportava i paracadutisti e i marines, circondato e difeso da unità
dotate del moderno sistema antimissile Sea Wolf, fu preso di mira ma non venne
colpito. Da dietro le alture che dominavano il Falkland Sound sbucarono a volo
radente dei Pucarà che colpirono con una serie di razzi la fregata Ardent, una
moderna unità di 3250 tonnellate, che qualche ora dopo affondò. Trascorsi due
giorni, il 23 maggio, vicino alla testa di ponte un’altra fregata della stessa
classe, l’Antelope, subì uguale sorte.
Il 22 maggio, costatata la scarsa reattività delle truppe
avversarie, gli inglesi fecero sbarcare a San Carlos i restanti marines e
paracadutisti, portando il totale degli uomini a terra a cinquemila,
accompagnandoli con mezzi corazzati e artiglieria. La direttrice di marcia
verso Port Stanley partiva da San Carlos e conduceva alla località di Teal
Inlet. L’avanzata era lenta e difficile data la mancanza di strade, il terreno
paludoso e cedevole, i campi minati e le continue piogge; inoltre con
l’avvicinarsi dell’inverno il buio scendeva molto presto e i venti antartici
portavano alla sera un gelo intenso. I genieri a fatica riuscirono però a realizzare
una pista per gli Harrier, utilizzando piastre d’acciaio per il fondo, anche se
il terreno spugnoso imbevuto di acqua e fango sprofondava.
Il 25 maggio, il secondo martedì nero, quattro Skyhawk
centrarono e affondarono il caccia lanciamissili Coventry, in servizio da soli
quattro anni, causando 26 morti tra l’equipaggio. I Super Étendard riuscirono
ad arrivare ad una ventina di miglia dalla flotta e a lanciare i loro Exocet:
questa volta colpirono il portacontainer Atlantic Conveyor di 15.000 tonnellate
che prese subito fuoco e affondò. La grande nave era stata trasformata in
bacino in un trasporto aerei e imbarcava venti Sea Harrier, una diecina di
elicotteri di vario tipo e una grande quantità di rifornimenti: anche se gli
aerei erano stati già trasferiti, l’affondamento causò un danno gravissimo, in
particolare per quanto riguarda la perdita di tre grandi elicotteri Chinook da
trasporto. Dodici marinai persero la vita tra cui il capitano, un veterano che
era stato silurato due volte durante il conflitto mondiale.
Il 27 maggio un commando di marines e il 2° battaglione
paracadutisti sbarcarono a Darwin e a Goose Green sulle sponde opposte dello stretto istmo che
unisce la parte nord e quella sud di Soledad. Goose Green era fuori dalla
direttrice di marcia verso la capitale e distava verso sud circa 40 chilometri in
linea d’aria da San Carlos, ma in quella località c’era una pista della FAA da
cui partivano i Pucarà. L’avanzata dei paracadutisti e dei marines verso Goose
Green cozzò contro le difese predisposte in questa località e per la prima
volta, il 28 maggio, intervennero le forze corazzate argentine. Ci fu una
battaglia che durò tre ore e alla fine i duri professionisti inglesi ebbero la
meglio sui difensori argentini che persero più di duecento uomini mentre un
migliaio furono presi prigionieri. Quel giorno l’Inghilterra pianse il suo
eroe: il ten. col. Herbert Jones, comandante del battaglione paracadutisti,
caduto alla testa dei suoi uomini e decorato con la Victoria Cross. Le
inaspettate perdite navali stavano preoccupando l’opinione pubblica inglese,
mentre iniziavano a tornare in patria i primi feriti. La stessa stampa, pur
conservando un atteggiamento fortemente patriottico, incominciava ad avanzare
qualche critica. La mazzata peggiore doveva ancora arrivare. Per rinforzare le
truppe a terra, la brigata di fanteria imbarcata sulla Queen Elisabeth II si
stava trasferendo sulle navi da sbarco di fronte alla località di Fitzroy: era
l’8 giugno, che verrà ricordato come il terzo martedì di sangue. Si trattava di
un’operazione lunga e pericolosa, resa complessa dalla perdita dei grandi
elicotteri Chinook dell’Atlantic Conveyor. Le navi da sbarco stazzavano 5670
tonnellate e appartenevano alla classe “Sir” in quanto portavano i nomi dei
Cavalieri della Tavola Rotonda. La Sir Tristram e la Sir Galahad avevano
imbarcato una parte del battaglione delle Guardie Gallesi quando ci fu un raid
aereo devastante. La fregata Plymouth fu gravemente colpita mentre la Sir
Galahad e la Sir Tristram avvamparono. La prima affondò dopo alcune ore, mentre
sulla seconda l’incendio fu alla fine domato; lo scafo gravemente danneggiato
fu rimorchiato in Inghilterra dove la nave venne ricostruita. Tra soldati e
marinai ci furono 56 morti e più di un centinaio di feriti gravi. La scena
apocalittica delle navi che avvampavano e degli uomini che si buttavano nelle
acque gelide fu seguita da molti giornalisti. Le loro cronache fedeli turbarono
l’opinione pubblica ma quella giornata costituì il canto del cigno
dell’aviazione argentina che non riuscì più a causare danni alla Royal Navy.
L’intero corpo di spedizione britannico si era ormai
attestato sui colli che circondavano Port Stanley a ridosso del perimetro
esterno di difesa argentino. L’attacco partì nella notte tra l’11 e il 12
giugno accompagnato dal volo radente degli elicotteri armati di razzi e
mitragliatrici e dal fuoco dei cannoni terrestri e da quelli delle navi. Il
caccia Glamorgan della classe “County” fu gravemente danneggiato, con la perdita
di 13 uomini, da un Exocet sparato da terra, mentre effettuava un
cannoneggiamento delle difese intorno alla capitale. La linea esterna non resse
a lungo e fu sfondata fino a una profondità di otto chilometri. Menendez tentò
invano di ristabilire la situazione contrattaccando con le sue ultime riserve.
La sera del 13 ci furono violenti combattimenti sugli ultimi colli tenuti dagli
argentini che furono attaccati dai paracadutisti e dalle Guardie Scozzesi. La
mattina del 14 gli inglesi raggiunsero le prime case di Port Stanley mentre gli
ultimi difensori si ritiravano vicino all’aeroporto. La sera, dopo un incontro
tra il comandante delle forze inglesi generale Jeremy Moore e Menendez, fu
proclamato il cessate il fuoco con decorrenza dalle ore 23.59. Alle due del pomeriggio del 15 giugno fu
firmata la resa ufficiale del presidio e le Malvine tornarono Falkland dopo 75
giorni. La conquista dell’arcipelago era costata 649 morti e 1068 feriti agli
argentini e 255 morti e 777 feriti agli inglesi; anche tre kelpers persero la
vita.
Il generale Galtieri non resse all’onta della sconfitta:
nel giugno di quello stesso anno, i suoi camerati generali lo sostituirono con
il generale Bignone. Poi la giunta militare restituì il potere ai civili e
nell’ottobre 1983 ci furono delle libere elezioni.

Caratteristiche di alcuni aerei, navi o armi impiegati

Dagger – Versione israeliana del Mirage III costruita per
l’esportazione. Alle Falkland furono utilizzati come caccia-bombardieri e 11
furono abbattuti.

Exocet – Missile antinave lanciato da navi, da terra e
dall’aria, sviluppato dalla società francese Aérospatiale, ha avuto un grande
successo commerciale per il prezzo relativamente economico. Tutte le versioni
sfruttano un sistema di guida inerziale nella prima parte del volo e un sistema
di guida radar attiva nella seconda, mentre un radaraltimetro gli permette di
volare a bassa quota. Entrato in sevizio nel 1974, al tempo della guerra delle
Falkland era ancora abbastanza sconosciuto. Velocità max: 0.93 Mach.

Harrier GR.3 – Aereo d’attacco e da caccia, a decollo e atterraggio verticale/corto (V/STOL-Vertical/Short Take Off and Landing), sviluppato dalla British Aerospace, è stato adottato dalla RAF e dal corpo dei Marines degli USA. Nella versione Sea Harrier, che ha alcune caratteristiche
diverse da quella terrestre, è in servizio nella Royal Navy e in alcune altre Marine, tra cui quella italiana. L’aereo non richiede lunghe e vulnerabili piste pavimentate e può essere decentrato ovunque, anche vicino al campo di battaglia. Alle Falkland questi tipi di aerei sono riusciti ad abbattere 25 velivoli argentini senza subire perdite nei combattimenti aerei; 6 Harrier e
4 Sea Harrier sono stati invece abbattuti da missili terra-aria e dalla contraerea. Gli
aerei risultano carenti per quanto riguarda l’autonomia e il carico bellico. Velocità max: 1.175 km/h a livello del mare; Mach 1.3 in quota e in leggera picchiata.

HMS Hermes – Portaerei d’assalto di 28.700 tonnellate varata nel 1953, nave ammiraglia durante le operazioni alle Falkland. Imbarcava 37 aeromobili tra Sea Harrier ed elicotteri Sea King.

HMS Invincible – Portaerei leggera di 19.000 tonnellate varata nel 1977. Durante la guerra delle Falkland imbarcava 10 Sea Harrier e 9 elicotteri Sea King. Il 30 maggio fu l’obiettivo di un’incursione durante la quale le fu lanciato contro l’ultimo missile Exocet dei cinque a disposizione dell’aviazione argentina, che fu deviato dalle contromisure elettroniche.

Mirage III – Aereo da caccia e d’attacco costruito dalla francese Dassault, entrato per la prima volta in servizio nel 1961 e venduto in varie versioni in molti paesi, tra cui Israele e Argentina. Ottenne una gran fama per le numerose vittorie ottenute dagli israeliani sui Mig 21 egiziani e siriani. Ha un motore pesante e dal consumo elevato, che riduce il carico pagante e il raggio d’azione: alle Falkland la sua permanenza sull’arcipelago era di soli 15 minuti. Velocità max: Mach 1.14 a livello del mare, Mach 2.2 a 11.000 m. Durante la guerra, dove furono utilizzati unicamente come intercettori, ne furono abbattuti 3.

HMS Sheffield – Cacciatorpediniere lanciamissili modello 42, faceva parte di una classe di 14 unità unitamente al gemello Coventry, anche lui affondato alle Falkland. In quelle operazioni erano presenti altri tre navi della stessa classe: Cardiff, Exeter, Glasgow. Questi destroyers, varati tra il 1972 e il 1980, stazzano 4100 tonnellate e imbarcano due elicotteri Lynx.

Sidewinder – Missile americano aria-aria a corto raggio a guida infrarossa, è considerato il sistema d’arma di maggior successo della sua categoria. Quando il missile aggancia il bersaglio si dirige autonomamente sulle emissioni di calore (infrarosse) dello scarico dell’aereo agganciato. È
prodotto da varie industrie.

Skyhawk-McDonnell Douglas A4 – Aereo d’attacco ideato per la US Navy, è stato uno degli aerei di maggior successo del dopoguerra ed è rimasto in produzione dal 1956 al 1979. L’Argentina possedeva 75 modelli per l’aviazione e 16 per la marina e li utilizzò ampiamente alle Falkland perdendone 22. Velocità max: 1.083 km/h con il carico bellico.

Incontro con il socio Piero Dell'Acqua "La Galleria Vittorio Emanuele (il cuore di Milano)"


Giovedì 26 gennaio 2012 abbiamo avuto il tradizionale appuntamento con la relazione del socio Piero Dell'Acqua che quest'anno ci ha piacevolmente intrattenuto sulla Galleria Vittorio Emanuele raccontata con la consueta passione per la sua città.

A Milano, passammo la maggior parte del tempo all’interno del grande e magnifico passage, o galleria ……….. Vorrei poter vivere qui tutta la mia vita.” (Mark Twain)

La Galleria Vittorio Emanuele, centro delle vicende amministrative, politiche, culturali e sociali della città, da quasi cinquantanni, è uno dei simboli di Milano, come esige una tradizione avvalorata dagli scritti di importanti letterati. Si disse, all’epoca della sua realizzazione, che sembrava costruita per giganti e non per esseri umani, ma, tuttavia, sono proprio le sue dimensioni ad impedirle di essere opprimente. Alcuni sostenevano che le correnti d’aria, che vi si producevano, sarebbero state dannose per la salute e avrebbero così inibito, all’aperto la frequentazione dei tavolini dei locali pubblici. Altri lamentavano che la costruzione avrebbe provocato la distruzione di una ingente parte del tessuto urbano. Molto diffuso era anche il timore che, quando fosse stata completata in tutte le sue parti, grazie alla protezione delle sue vetrate, sarebbe diventata un rifugio, soprattutto notturno, di vagabondi, di emarginati e malviventi. Tuttavia, dopo il suo completamento, il popolo milanese se ne appropriò subito, ne fece una “casa” sua, concedendo il privilegio dell’osservazione ai forestieri e ai visitatori stranieri. Divenne così un elegante “salotto” e, nel contempo, un vasto salone in cui c’era posto per tutti. Il 19 agosto 1859 veniva letto al Consiglio comunale un rapporto avente per oggetto la dedica al re di una via da aprirsi tra la piazza del Duomo e la piazza della Scala.

E’ un vero bisogno pubblico che le strade postali si avvicinino tra loro all’interno della città per la linea più breve e convergano ad un punto comune affinché il viaggiatore abbia una direzione certa per continuar il cammino dall’una all’altra nella entrata e nella uscita ……….. Sarà aperta una via rettilinea di comunicazione …………decorata di edifici laterali ………….. La nuova via sarà dedicata a S.M. il re Vittorio Emanuele e ne porterà l’augusto nome ……….

Il 4 dicembre 1859, re Vittorio Emanuele, in attesa della proclamazione del regno d’Italia, autorizzava il municipio milanese ad istituire una lotteria di due milioni, a biglietti di dieci lire l’uno, con l’impegno di destinare il ricavato alla definitiva soluzione del problema di sistemazione di piazza del Duomo. Alla vigilia della proclamazione del regno, Milano contava 184.000 abitanti distribuiti in cinquemiladuecento case su un’area di 794 ettari. Era una città murata in quanto i suoi confini correvano lungo la cerchia dei bastioni spagnoli e si comunicava con l’esterno solo attraverso porte. Centotrentamila abitanti risiedevano nella parte centrale
della città, delimitata dalla fossa del Naviglio. L’8 maggio 1861 il Comune bandiva un concorso che metteva a disposizione premi di 15.000, 10.000 e 5.000 lire ai tre migliori progetti presentati, concorso al quale parteciparono ben diciotto professionisti. Nessuna delle proposte presentate fu ritenuta meritevole di vittoria, ma, dopo interminabili sedute, grotteschi litigi, ripensamenti, la commissione giudicatrice approvava il progetto generale planimetrico, firmato con lo pseudonimo “Dante”, sotto il quale si celava l’architetto bolognese Giuseppe
Mengoni. L’opinione pubblica intanto, a mano a mano che le proposte si rendevano note, non mancava di prendere posizioni. Erano molti i milanesi che non vedevano di buon occhio sventramenti e demolizioni che l’amministrazione andava progettando e attuando. Anche la stampa era divisa tra chi sosteneva a gran voce le istanze di rinnovamento invocate dagli amministratori e coloro che, al contrario, profondamente abbarbicati alle loro radici, respingevano, a priori, qualsiasi progetto di ammodernamento del tessuto cittadino.

Il percorso burocratico del progetto era stato disseminato non solo di ostacoli di carattere tecnico – organizzativo, ma, anche, soprattutto di intoppi di natura speculativa. Vicende che più di tutte avevano evidenziato l’estrema disinvoltura con cui alcuni amministratori avevano operato nell’ambito della gestione del denaro pubblico. Un caso era stato quello di un esattore comunale,
il ragionier Pietro Conconi che, fiutato il vento favorevole, aveva pensato bene di mettersi a commerciare immobili, utilizzando il denaro del Comune, tanto che, ad un controllo risultò un ammanco di un milione e seicentomila lire. Un altro caso fu quello riguardante l’assessore Giovanni Battista Marzorati, cognato del sindaco Antonio Beretta. Il Marzorati aveva acquistato due immobili, due casupole fatiscenti, inclusi tra quelli destinati all’abbattimento per la costruzione della Galleria, subito venduti al Comune per una cifra più che doppia rispetto al valore reale. E non basta; mentre tutti gli altri proprietari avevano ricevuto in pagamento contanti per la metà del valore degli immobili espropriati e l’altra metà era stata saldata con cartelle di rendita del Comune, il contratto tra quest’ultimo e Marzorati, stilato dal notaio Sormani in data 18 agosto 1864, prevedeva invece: “Ogni pagamento da farsi dal Comune, compratore, dovrà eseguirsi in Milano in buoni denari sonanti d’oro e d’argento ……”.

Per quanto accaduto, il 14 luglio 1867, il cavaliere dottor conte Antonio Beretta rassegnava le dimissioni da sindaco. Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II compiva il solenne rito della posa della prima pietra della Galleria, che avrebbe preso il suo nome.

Racconta “ L’Illustrazione Italiana” : “ Il tempo era orribile, nevicava a larghe falde, tuttavia la gente accorreva”.

La prima pietra era costituita da un blocco di granito scavato nel centro e contenente una cassetta di piombo in cui erano racchiusi il verbale di approvazione del progetto, i disegni, alcune fotografie scattate nella occasione, e alcune monete d’oro inglesi e italiane. Il masso, collocato nelle fondamenta di un pilastro, era stato sigillato con un coperchio di marmo su un lato del quale era scolpito il disegno della piazza e sul lato opposto era incisa la seguente epigrafe:

Vittorio Emanuele II, re d’Italia pose la prima pietra il 7 marzo 1865, il re magnanimo che
rivendica l’Italia e la libertà di Milano, inizia le grandi imprese del lavoro e dell’arte, che,
nella libertà, hanno vita rigogliosa e feconda.”


L’architetto Mengoni, presentò al re, in un recipiente d’argento, la calce ed una cazzuola, e Vittorio Emanuele gettò un po’ di cemento sulle connessioni fra la lastra di marmo ed il battente
dell’incassatura. Qui finiva la cerimonia civile e cominciava quella religiosa. Il Mengoni, che aveva commissionato a Domenico Induno un dipinto raffigurante la cerimonia della posa della prima pietra per conto della società inglese costruttrice dell’opera, dovette purtroppo alla fine pagarlo di tasca propria.

Domenica, 15 settembre 1867. Era una bella giornata ben diversa da quella tempestosa che aveva fatto da sfondo alla posa della prima pietra, circa trenta mesi prima. Le strade circostanti e la piazza del Duomo erano gremite di folla già molto prima del momento fatidico. Gli invitati erano in attesa in abito di gala, rigorosamente nero. Il sopraggiungere di sua maestà fu annunciato dal rullo dei tamburi e dagli squilli della fanfara reale. Il re arrivò a bordo di un cocchio, accompagnato dal presidente del consiglio, l’avvocato Urbano Rattazzi, dal ministro dei lavori pubblici e dal suo aiutante di campo. Con la presenza dell’architetto Giuseppe Mengoni e di sir Lowe, rappresentante della società costruttrice “The City of Milan Improvements Company Limited”, il sindaco Antonio Beretta, rendendo gli onori di casa al sovrano, proclamò: Sire, la città di Milano confida che questo grande edificio dovuto al felice connubio dell’arte italiana coi capitali stranieri, e occasione di tanto vantaggio per le classi laboriose, al cui benessere sono costantemente rivolti i vostri pensieri come il furono le nostre cure, sia per riuscire alla Maestà Vostra gradito.” Già da un solo primo sguardo Vittorio Emanuele II sembrò entusiasta dell’opera a lui intitolata ed esclamò : “Dicono che non si fanno più miracoli, ma questo è uno!”.

Dopo i discorsi ufficiali, iniziarono i festeggiamenti: pranzo a palazzo Reale, concerti di bande in diverse piazze ………… folla festante ovunque. Tutta la stampa ebbe espressioni entusiaste:

Noi non resteremo a ripetere il resoconto ufficiale della festa; per gli scettici sarebbero parole perdute, per chi conserva ancora qualche fede nei vergini entusiasmi del popolo, ripeteremo soltanto che quello fu un giorno di vera e spontanea festa.”

Così scriveva il raffinato “Corriere delle Dame” che una settimana dopo aggiungeva:

Oramai, otto giorni dopo l’apertura, la popolazione di Milano ha fatto ripetutamente la sua rivista minuziosa di tutto l’edificio, benché l’illuminazione sia ridotta alle modeste proporzioni della vita quotidiana … Si può fin d’ora prevedere che la Galleria diventerà il luogo prediletto di ritrovo dei milanesi, il passaggio più comodo e più ricercato nelle serate d’inverno, il centro della vita elegante della città …… E si noti che manca uno degli ornamenti più vitali della Galleria, quello dei negozi, i quali, quantunque, quasi per intero già appropriati ai più ricchi mercanti, sono ancora oggi oscuri e vuoti e non verranno occupati che dopo il san Michele.”
Fece eccezione alla regola solo Paolo Biffi, già proprietario di due offellerie, una in corsia del Duomo e l’altra in contrada Santa Maria alla Porta, che ebbe l’audace intuizione di giudicare l’Ottagono l’ombelico della città e del mondo attorno a Milano e riuscì così ad aprire, solo pochi giorni dopo l’inaugurazione della Galleria, un vasto ed elegante caffè che fu immediatamente invaso da una folla di gente.

I guadagni che l’intraprendente industriale fece in pochi giorni si fanno ascendere a somme favolose, e certo, se l’aura gli spira propizia per qualche giorno ancora, egli avrà messo insieme quanto occorre per pagare la non tenue pigione di trentamila lire, che stipulò per ogni anno che terrà i locali ora occupati.

Così scriveva “Il Corriere delle Dame”.

Le grandi specialità del Biffi furono il “melange”, una mistura analcolica, e il panettone, del quale Paolo Biffi soleva spesso dire: “I miei panettoni stanno nella famiglia pastacea come un cardinale nella gerarchia ecclesiastica.”
Il Biffi ebbe il suo battesimo di fuoco pochi giorni dopo l’inaugurazione. Si era saputo a Milano che Garibaldi, al tentativo di varcare il confine dello stato Pontificio per la marcia su Roma, era stato arrestato ed era stato imprigionato a Varignano ove rimase alcuni giorni prima di salpare per Caprera. Assembramenti di giovani e cortei occuparono la Galleria e ci furono tafferugli ed arresti. Un grande cristallo del Biffi andò in frantumi ed un ritratto fu asportato da una sala e recato con grandi ovazioni fino alla Contrada del Monte.
Poco tempo dopo Giuseppe Campari, quando seppe che il Coperto dei Figini e il Rebecchino sarebbero stati abbattuti per il progetto mengoniano di sistemazione della piazza del Duomo, da Novara venne a Milano, aprì la sede provvisoria del Caffè Campari in contrada del Duomo, affrettandosi a prenotare una bottega nella costruenda Galleria Vittorio Emanuele.
Il Caffè diverrà universalmente molto famoso. Noto come “angolo del Campari” fu il punto ideale per appuntamenti e incontri galanti. Successivamente nel sotterraneo del locale nacquero il
“Fernet Campari”, preparato secondo la formula del dottor Fernet, e il famoso
bitter, chiamato inizialmente “Amaro d’Olanda” che, in breve tempo, conquisterà
il mondo.
Il Caffè fu luogo di battaglie culturali, nonché di risse tra gruppi contrapposti. Celebre quella fra Umberto Boccioni, spalleggiato dai futuristi milanesi, e Ardengo Soffici. E proprio il Boccioni, prendendo spunto dall’avvenimento, raffigurò il suo dipinto “Rissa in Galleria”.
La Galleria fu concepita a forma di croce, con due bracci, di 196,62 metri e di 105,10 metri, che si intersecano a formare una piazza ottogonale, sovrastata da una cupola di ferro e vetro alta 49 metri. Nei lunettoni pregevoli mosaici, raffiguranti le quattro parti del mondo, Europa, Asia, Africa e America, hanno sostituito nel 1911 i preesistenti affreschi ormai compromessi.

“Il pavimento è condotto a terrazzo con smalti, ed è opera elengatissima di artisti veneziani
……. Nel mezzo dell’Ottagono quattro grandiosi mosaici del Salviati ………Le botteghe, che in numero di novantasei, occupano tutto il piano terreno dei due lati del fabbricato, sono vaste, eleganti e divise da ampie portiere di vetro ……… Il primo piano ha finestre ampie e maestose, e al di sopra s’alza un secondo piano assai basso ……. Il terzo piano sorge in belle proporzioni, e le finestre sono intercalate da grandiosi cariatidi. Certo la parte superiore, oltre il ballatoio, resta in ombra; ma ciò serve anzi ad accrescere la vastità e l’imponenza dell’ambiente. In compenso sono illuminati i lucernari dei sotteranei, adibiti a magazzini ed opifici, e quando nei giorni che seguirono la apertura, scemata la ressa, le signore si accorsero che da quegli spiragli del pavimento qualche indiscreto avrebbe potuto occhieggiare di sotto in su, fu grande la sorpresa e lo spavento.”
(Dal Corriere delle Dame)

Erano ancora i tempi in cui le signore consideravano ancora le proprie gambe come un articolo d’uso privato e chissà come … ridevano i ventiquattro illustri italiani di gesso, che, nell’Ottagono e ai lati degli archi d’ingresso, le vedevano schivare con terrore quelle specole sotterranee.
Ma pensò l’ufficio tecnico a risparmiare ogni confronto; esse furono rimosse e distrutte in quanto, congelando la nebbia sul gesso ne avrebbe provocato lo sgretolamento, donde
una grave e continua minaccia per i frequentatori della Galleria. L’illuminazione standard alimentata a gas, era assicurata da candelabri a braccio, sporgenti dalle lesene fra negozio e negozio, con le fiamme protette da globi di vetro smerigliato.
Nelle grandi occasioni l’impianto era rafforzato da ulteriori lampadari che scendevano dall’alto intorno alla cupola. Il 13 giugno 1874, alle ore 16,30, si abbattè su Milano uno dei più tremendi temporali che la storia ricordi. Preannunciato da un cielo incupito da una nera nuvolaglia, il temporale si scaricò con una inaudita violenza sulla città; i goccioloni di pioggia si trasformarono in chicchi di grandine: un autentico bombardamento con effetti disastrosi.

Ogni grano era grande come una mela, sette o otto formavano un chilogrammo, dove battevano sfracellavano e bucavano da parte a parte come una mitraglia. Durò più di dieci o dodici minuti, eppure quale rovina, quale sterminio! Tutti i vetri andarono in pezzi. La superba tettoia che tanto il mondo ci invidia fu spogliata in un momento dei suoi grossi lastroni; fra rotti e mancanti si arrivò alla cifra di settemila niente meno.”
Così il giornale “La Perseveranza” descrisse l’avvenimento.

Nel 1875 Milano e la Galleria vissero momenti di grande festa, quando nel mese di ottobre ci fu la visita dell’imperatore di Germania, Guglielmo I. Per l’occasione fu demolito a tempo di record l’isolato del Rebecchino, poiché urgeva sbarazzare piazza del Duomo da quel vetusto ingombro
per mostrarla agli augusti ospiti nel nuovo aspetto. Giorno e notte furono portati via i materiali, così che in una settimana tutto era sparito d’incanto.
Alla sera della festa la piazza del Duomo e la Galleria furono illuminate a giorno, e l’imperatore, che era stato ricevuto dal re Vittorio Emanuele, e dalle autorità cittadine, al transito in Galleria, fu accolto dai coristi dell’orchestra del Teatro alla Scala che intonarono, nell’Ottagono
una cantata di Bach.
Nel 1876 Baldassarre Gnocchi aprì il grande caffè – ristorante allo sbocco della Galleria in piazza della Scala. Era un vasto ed elegante locale, profusamente illuminato con quattro lumiere a gas, che destarono la meraviglia del pubblico e della stampa. Egli aprì nella Galleria l’ultima vetrata a sghimbescio e nel vano costruì un’alta pedana per sistemarvi l’orchestra dei suoi concerti
serali che attiravano sempre una folla ai tavolini del caffè. Poco tempo dopo il Gnocchi scritturò l’orchestra di “Dame Viennesi” che provocò continui assembramenti di entusiasti ascoltatori.
Successivamente si alternarono orchestrine ungheresi, lombarde e toscane.

Il 30 dicembre 1877, mentre si stava sperimentando per la prima volta in Italia, un collegamento telefonico tra palazzo Marino e la caserma dei pompieri, si diffuse la tragica notizia della morte di Giuseppe Mengoni, a causa di una caduta da un’impalcatura alla sommità dell’arco
d’ingresso della Galleria. L’impressione fu grande in città ed un lungo drappo nero fu steso durante i funerali, lungo il fianco dell’arco fino a terra, dove era caduto. L’inizio del nuovo anno, il 1878, non fu certo portatore di buone notizie. Il 9 gennaio si spense di polmonite, appena cinquantanovenne, il re di Italia, al quale Milano aveva voluto intitolare la maestosa Galleria.
Negozi e locali chiusero i battenti, molti giornali sospesero tutte le pubblicazioni.

E’ il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi, stavo per dire nella aorta e nelle arterie del grande organismo tanto la sua rassomiglianza colle funzioni del cuore è evidente …….. Dentro la Galleria, sui grandi cristalli delle botteghe e del caffè Gnocchi e del caffè Biffi è un incessante riflettersi e sparire di graziose macchiette dalle
testine ben pettinate, dai cappellini un po’ sgualciti, ma portati con fierezza ………. E in mezzo a quella folla, ecco andare su e giù certi tipi caratteristici che danno nell’occhio ……… a gruppi di tre, di sei, di dieci, parlano insieme, ……… gesticolando, discutono a voce alta, in tutti i dialetti della penisola, e di tanto in tanto lanciano, a mezzo tono, un trillo di baritono, una fioritura di basso profondo …….. E mentre essi dondolano su e giù, fantasticando scritture, patteggiando contratti ………. ingannando l’appetito coi bicchierini di vermutte e di assenzio del negozio Campari, i giovanotti eleganti ……… terminano di masticare svogliatamente una pasta, aspettando di far la corte alle eleganti borghesi e alle signore sole ………. In quell’ora i negozi sfolgorano in piena luce e lanciano, dietro le grandi lastre di cristallo, le loro tentazioni irresistibili …………… è un bagliore fantasmagorico che si muta ad ogni muover
di passo e non lascia in pace, una seduzione insistente che provoca tutti i gusti, aizza tutti i capricci e desta curiosità ed avidità le quali, spessissimo, debbono appagarsi d’ammirare soltanto.
C’è un’ora nella quale la Galleria rimane quasi deserta.
Il rumore di vasellame e di posate che esce dal caffè Biffi e dal caffè Gnocchi fa comprendere che in quell’ora solenne la grassa Milano siede a tavola. Un odore di pietanze calde invade l’aria e solletica le narici dei vari passanti. Poi le ombre della sera si aggravano da ogni
lato ………. Verso le undici, dopo che la folla si è diradata, dopo che i negozi si son chiusi ……… ………… Ecco le figure di donne che passano frettolose, vi lanciano, con occhi splendidamente temerari, un invito, una seduzione, e vanno a perdersi più in là dietro l’ombra notturna.”
(Luigi Capuana)

Un personaggio famoso in quegli anni fu la fioraia Teresina che, con il fazzoletto sul capo e le zoccoletto ai piedi, venne a Milano, a sedici anni, dalla campagna per offrire fiori. Dal ridotto della Scala, ove personalmente metteva un candido fiore
all’occhiello dei suoi molti conoscenti
e amici, passava, ogni sera, al Biffi col suo profumato canestro a
vendere mazzolino di fiori. Conosceva bene i suoi clienti e non aveva
l’abitudine di farsi pagare al momento poiché erano i suoi “abbonati” che, a
fine mese, le davano il compenso in busta chiusa. La notte fra il 16 e il 17
giugno 1881, la bella fioraia fu vittima di un drammatico caso.
Mentre stava tornando a casa, in piazza Fontana, fu improvvisamente assalita da un individuo che la ferì al viso con la lama di un rasoio.
Un urlo fece accorrere la gente che la trasportò sanguinante all’ospedale ove le diedero diciassette punti per cucire la ferita.
Per fortuna lo sfregio era superficiale e guarì in una ventina di giorni, ma,
per quel taglio che la deformava, non si fece più vedere.
Nei momenti più caldi del dibattito sociale, la Galleria
fu uno dei luoghi più utilizzati per ogni tipo di manifestazione, come riporta
Emilio De Marchi:

Quando si sparge e corre per la città una grande notizia politica o ricorre un grande anniversario, immensa è la fiumana di gente che vi si versa di giorno e di sera.

Sempre più frequentata, sempre più vitale, sempre più
simbolo della metropoli, purtroppo essa divenne il punto più preso di mira
dalle forze dell’ordine. Trattandosi di una struttura aperta per ventiquattrore
su ventiquattro, come qualsiasi piazza, la Galleria era accessibile a chiunque.
Se nelle ore diurne rappresentava il “salotto buono”
della città, nelle ore notturne, allorché l’illuminazione standard si spegneva
e rimanevano accesi soltanto i quattro lampioni d’angolo, si popolava di una
umanità quanto mai varia e pittoresca.

Di notte la Galleria è uno spettacolo
che fa pensare, e che incute nell’animo
un senso pauroso di irriverenza ………
è di quelli che non hanno una casa, di
quelli che gli amici menano a perdizione,
dai traditi dell’amore, e di chi torna da
una festa di ballo …………..”
(Emilio De Marchi)

La Milano di fine ottocento era una delle capitali della vita teatrale, soprattutto lirica. Da ogni parte del mondo giungevano artisti in cerca di gloria, disposti a tutto pur di calcare il palcoscenico di un teatro cittadino: la Scala, preferibilmente. Il punto nevralgico di tutto questo complesso sistema di speranze canore era la Galleria. A differenza della Scala, in
Galleria non vi erano momenti in cui il cuore di tremila persone batteva allo
unisono con quello dei tenori e dei soprani, non vi erano le grandi emozioni canore e i trionfi della lirica, ma fiaschi e successi ebbero il loro battesimo nell’Ottagono.

La Galleria Vittorio Emanuele era affollata ……. Verso la cupola di vetro dell’Ottagono,
da cui pioveva una luce scialba, saliva un ronzio incessante e monotono. E pensare che quel ronzio era il risultato delle mille voci, le quali, secondo i giornali teatrali avevano entusiasmato tutti i pubblici del mondo! Infatti, dal caffè Biffi, io vedevo sfilarmi dinanzi tutta la processione degli artisti da teatro e ……. affini: tenori, baritoni, bassi, agenti … ………… professori di orchestre, maestri concertatori, coreografi ……….. coristi, ballerine e ballerini.…… Il ronzio diventava sempre più fragoroso; ma, in quel frastuono di voci, di parole, che più di frequente risonavano, erano: scrittura, opera nuova, fiasco ………. fischiato, orchestra, finale, duetto ………… serata, impresario. Poi erano nomi di città, di opere, di balli, di drammi.”
(Ferdinando Fontana)

Esisteva pertanto un mercato brulicante, che oggi neppure si immagina, degli impresari e degli artisti da scritturare. C’era un condensato di tutto un mondo teatrale; innumerevoli erano le leggende sulla vita musicale. Titta Ruffo, calato a Milano, si era seduto al caffè Biffi per
respirare l’aria della Scala, quando fu avvicinato da un vecchio galoppino che
gli chiese se era disposto a concedere un’audizione al maestro Toscanini. Il giorno dopo, alla Scala, gli fu offerto un contratto di tre opere e, da quel momento, divenne uno dei più grandi baritoni della lirica italiana. Uscì dalla Scala inebriato di gioia. Non avevo che
venticinque anni. Il sogno da me accarezzato era ormai rapidamente …………..
diventato una realtà. Traversai la Galleria …………

Nel 1896, il compositore Umberto Giordano cercava un tenore per la sua opera “Andrea Chenier”, in quanto Alfonso Garulli, preoccupato per un insuccesso dell’opera, aveva rinunciato alla parte.
Giordano battè disperato in lungo e in largo la Galleria, finchè un giorno un amico gli presentò il tenore Giuseppe Borgatti che accettò la parte e contribuì non poco al successo scaligero dell’opera. Nel 1885, Virgilio Savini comperò il locale della ditta Stocker e continuò a gestirlo come ristorante e birreria. Fin dall’inizio il Savini seppe accogliere e rianimare
gli ultimi tempi della scapigliatura offrendo nel frattempo alle sue grandi
vetrate di riflettere le figure del giornalismo e del teatro che davano lustro
a Milano.
All’inizio del ‘900 apparvero i rossi divani di peluche, i tavolini con i tipici paralumi rossi, i grandi candelabri e le fioriere forgiate in ferro battuto. Sempre più divenne il ritrovo di rigore per i
Milanesi, gli italiani e gli stranieri. Fu il quartier generale di Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo. Di là egli partiva per la sua
serata con la maggiorina in testa, accompagnato dal gruppo dei suoi fedeli, si
recava in Galleria a battagliare col pubblico per due o tre ore.

Non vi furono avvenimenti artistici e letterari che non siano stati tenuti a battesimo al Savini: l’apparizione di un libro, la prima di una commedia, la serata alla Scala, una mostra di pittura, venivano commentate e vagliate ai tavolini del Savini, fra le dieci e mezzanotte dinanzi
a un risotto all’onda.

Proprio al centro dell’Ottagono sono raffigurati nel mosaico del pavimento gli stemmi delle più importanti città d’Italia, fra questi il toro di Torino, l’AUGUSTA TAURINORUM dei romani,
che un tempo recava gli attributi maschili bene in vista. Pare che a volerlo raffigurato in modo
così realistico fosse stato lo stesso architetto Giuseppe Mengoni.
La trovata del toro voleva essere scherzosa “per scandalizzare e solleticare dame e damigelle milanesi”, che Mengoni considerava troppo sussiegose.
Del resto, fin dai tempi più remoti, il toro è simbolo di piacere e di forza, di prestanza fisica e di virilità, e sono molti i popoli che lo hanno celebrato come tale. Qualunque siano state le intenzioni del Mengoni, il possente toro rampante divenne la meta di donne e ragazze che vi
poggiavano una mano o un piede scalzo, ma talvolta si sedevano addirittura sull’organo riproduttivo che, secondo una leggenda, si animava procurando loro piacere.
Qualche benpensante pensò di porre fine a tale spettacolo licenzioso, e cancellò la parte più scabrosa del mosaico. Per porre rimedio, il buco venne colmato con del ferro, così da eliminare ogni “effetto secondario a livello fisico”.

Una superstizione moderna invece vuole che premere il piede in corrispondenza degli attributi del toro, facendo una leggera rotazione su se stessi, porti fortuna. Il pavimento, rovinato durante l’ultima guerra mondiale, fu riportato all’antico splendore nel 1967 e quando fu reso praticabile, i
milanesi constatarono con indignazione che il Comune aveva privato il toro della sua “peculiarità”, impedendo la possibilità del rituale porta fortuna. Nel ‘900 la Galleria fu testimone attendibile e scrupoloso dell’evolversi della situazione nazionale. La “via coperta” del Mengoni fu spettatrice e partecipe delle lotte fasciste e antifasciste, delle miserie postbelliche che delle
crescenti passioni sportive ambrosiane.

Bombardata più volte durante la seconda guerra mondiale, ebbe la copertura distrutta, il pavimento divelto, una parte degli uffici danneggiati. Occorreranno anni, prima che queste ferite siano rimarginate. Bisognerà attendere il 7 dicembre 1955, festa del patrono, per vedere la nuova inaugurazione. Con il suo arco trionfale d’ingresso rappresentò nuovamente il luogo di incontro prediletto dei milanesi, il cuore della città.

Si potrà dire e lo si dice che la Galleria è una sconcezza di stucco, che non ha nessun gusto d’arte, che è la grotta di Eolo, che in architettura è scorretta come la lettera di un pompiere innamorato, ma tutti ce la invidiano." (Emilio De Marchi)