venerdì 1 novembre 2013
Incontro di Giovedì 24 Ottobre 2013 con Alessandro Colombo : "Cosa offre oggi l'industria 'Health Care' per la salute e il benessere del consumatore: tra l'alimento e il farmaco"
«Cosa offre oggi l’industria “Health Care” per la salute ed il benessere del consumatore : tra l’alimento e il farmaco» è stato il tema della relazione di giovedì scorso.
Ad intrattenerci il Dr. Alessandro Colombo, del Gruppo Bayer, Vice Presidente Gruppo Integratori Alimentari & Prodotti S alutistici / Associazione Italiana Industrie Alimentari (AIIPA).
Dopo una breve panoramica sulla realtà dell’industria “Health Care” e sui prodotti offerti il relatore ha introdotto il filo conduttore della serata: “integratori alimentari e prodotti salutistici”, tema tanto diffuso al giorno d’oggi quanto controverso.
Colombo ha ricordato che nell’innumerevole offerta di prodotti che popolano il mercato dell’industria farmaceutica e alimentare non sempre il consumatore è in grado di fare una distinzione tra i concetti di farmaco, integratore e alimento e, di conseguenza, risulta difficile orientarsi nella scelta.
Con una relazione esaustiva e coinvolgente il relatore ha fatto chiarezza su cos’è un integratore e cos’è un farmaco, sottolineando come non siano da confondere.
L’integratore può essere assunto da soggetti sani che vogliono mantenere il proprio stato di benessere a differenza del farmaco vero e proprio, somministrato per curare una determinata patologia.
La serata si è conclusa con una serie di domande dei soci alle quali il relatore ha puntualmente dato risposta. A cura di Chiara Toldo
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Alessandro Colombo - Attualmente Market Research & Business Development Head / Bayer HealthCare.
Ha lavorato inizialmente nelle Funzioni Marketing & Sales Divisione Farmaceutica in Schering AG e Farmitalia Carlo Erba SpA.
Entrato in Bayer SpA, prima dell’attuale funzione, ha ricoperto diversi ruoli: Marketing & Sales Manager e Business Development Director nella Divisione Farmaceutica, Resp. Pianificazione Strategica Gruppo Bayer in Italia e infine Direttore Generale di Pharbenia srl (gruppo Bayer) .
Incontro di Giovedì 17 Ottobre 2013 con Pietro Pizzoni : "Le Termopili della Legione"
Come di consueto il nostro socio Pietro Pizzoni ci ha intrattenuti giovedì scorso raccontandoci un episodio storico: La leggendaria battaglia delle Termopili, svoltasi nel 480 a.C., che ha brillantemente e sagacemente esposto con la sua usuale passione.
“O straniero, annuncia agli Spartani che qui giaciamo, ubbidienti alle loro leggi”. È questa, secondo varie testimonianze tra cui quella di Erodoto, l’iscrizione che fu posta sulla tomba dei trecento spartani comandati da Leonida caduti alle Termopili, nel 480 a. C., nel tentativo di arginare l’invasione persiana. L’epigramma, attribuito a Simonide, è ancora noto come simbolo di eroismo e di totale dedizione alla Patria. Nella traduzione, non del tutto letterale che ne fa Cicerone, è ancor più accentuato il carattere sacrale della Patria e delle sue leggi: “ Dic, hospes, Spartae nos te hic vidisse iacentis, dum sanctis patriae legibus obsequimur”.
Molte nazioni, soprattutto in epoca moderna, hanno fatto ricorso al mito eroico di un gruppo di uomini, che si battono anche fino all’estremo sacrificio contro un numero soverchiante di nemici, per farne un muro portante dell’identità nazionale. Basti pensare al significato che ha assunto l’assedio di Alamo per un abitante del Texas, e in seguito per gran parte dei cittadini degli Stati Uniti. Nel Sud Africa dell’apartheid, il mito del pioniere boero, che si avventurava in terre sconosciute con la sua famiglia ed era assalito da torme di selvaggi zulu, costituiva la ragione stessa dello stato, così come nella ormai scomparsa Rhodesia del Sud l’assalto e il massacro della pattuglia del fiume Shangani da parte dei matabele.
Nel nostro piccolo, anche noi italiani per un brevissimo periodo abbiamo tentato questa operazione: l’eroica resistenza di un gruppo di garibaldini guidati da Pilade Bronzetti contro una soverchiante forza borbonica nella località di Castel Morrone, poco prima della battaglia del Volturno, portò alla definizione, coniata dallo stesso Garibaldi, di Termopili dei Mille.
Non deve quindi stupire che un Corpo militare quale la Légion Étrangère, che addirittura nel motto “Legio Patria Nostra” sottolinea la nuova identità che deve assumere il legionario, attingesse nel suo passato per trovare un combattimento – quello del 1863 a Camerone – che indicasse alle nuove reclute a quale esempio ispirarsi nel compimento del loro dovere. L’operazione era già in atto negli ultimi anni del XIX secolo, ma ebbe un impulso decisivo all’inizio degli anni Venti del secolo successivo quando la Legione, spaventosamente decimata dalle battaglie della Grande Guerra, tornò al suo teatro storico d’azione in Africa Settentrionale. Subito dovette affrontare le rivolte in Algeria e, soprattutto, la grande rivolta di Abd el-Krim in Marocco, spartito tra Francia e Spagna. Questo capo nazionalista organizzò una sollevazione delle tribù berbere per la liberazione del Rif che portò alla più grave sconfitta subita da un esercito europeo ad opera di un popolo africano, nel 1920, a Annual (o Anoual) dove più di dodicimila soldati spagnoli persero la vita. Per fronteggiare la rivolta gli organici della Legione furono rapidamente aumentati fino ad arrivare ad oltre trentamila elementi, soprattutto soldati di nazioni recentemente sconfitte – come la Germania (i tedeschi arrivarono in quel periodo a coprire oltre il 40% degli organici), la Russia zarista e l’Impero asburgico – che cercavano disperatamente una nuova identità e una qualche forma di riscatto. I quadri superstiti della vecchia Legione d’anteguerra, sfessati dalle battaglie nelle trincee e abituati ad aver a che fare con altri tipi di reclute, non ce la facevano come imponeva la tradizione a trasmettere con il loro esempio i valori della Legione.
Il comandante della Legione, il leggendario colonnello Paul-Frédéric Rollet che aveva guidato nella parata della Vittoria nel 1919 sui Campi Elisi i legionari superstiti, prese in mano la situazione e varò una serie di provvedimenti per forgiare un nuovo spirito di corpo. Innanzi tutto riesumò il giorno della celebrazione di Camerone: da quel momento il 30 aprile è diventato una festa solenne, con una ritualità particolare, che simboleggia una Legione votata al sacrificio supremo. Nello storico quartier generale del Corpo a Sidi bel-Abbès, a circa novanta chilometri a sud di Orano, lo stesso Rollet progettò la costruzione di un grande Monument aux Morts e l’ammodernamento della Salle d’Honneur, in modo che fosse visibile il collegamento con il passato e che i nomi degli eroi incisi sul marmo rimanessero scolpiti nelle menti delle nuove reclute. Quando la Legione ha dovuto lasciare l’Algeria nel 1962, il Monument fu smontato pezzo per pezzo e ricostruito nel nuovo quartier generale a Aubagne vicino a Marsiglia. Infine le canzoni, tra cui la celebre Le Boudin (Il Sanguinaccio), dovevano essere imparate e cantate per formare lo spirito del Corpo. Uomini che erano fuggiti dalle loro famiglie e dal mondo stesso erano incoraggiati a considerare la Legione come la loro nuova patria. Il concetto stesso di Legio Patria Nostra doveva essere continuamente riaffermato. Il secondo motto della Legione fu cambiato da Valeur et Honneur a Honneur et Fidélité in modo da creare un nesso indissolubile non tra la Francia, bensì tra la Legione e il nuovo soldato che deve essere chiamato con rispetto Monsieur le Légionnaire.
Dopo l’insurrezione del luglio 1830 che aveva cacciato Carlo X, l’ultimo re Borbone che pochi mesi prima aveva conquistato l’Algeria, era salito al trono Luigi Filippo d’Orleans, il più borghese tra i sovrani la cui arma preferita era l’ombrello. Per fronteggiare le continue rivolte berbere, il 9 marzo 1831 aveva creato una Legione composta da stranieri – anche se molti volontari francesi si arruoleranno sotto falsa cittadinanza – destinata a combattere fuori dal territorio metropolitano. La Spagna della rivolta carlista, la Crimea, l’Italia della Seconda Guerra d’Indipendenza e soprattutto l’Algeria furono i teatri d’azione della Legione.
Nel 1861 il Presidente messicano Benito Pablo Juarez aveva sospeso i pagamenti degli interessi dei debiti internazionali contratti dal suo paese. L’imperatore Napoleone III, che aveva di recente acquistato parte del debito messicano da una banca svizzera, organizzò una spedizione militare, alla quale inizialmente parteciparono anche modesti contingenti spagnoli ed inglesi, a garanzia del proprio investimento. Gli interessi del losco banchiere svizzero Jecker, che aveva saputo coinvolgere nelle sue operazioni l’influente duca di Morny fratellastro dell’imperatore, non furono estranei alla decisione di Napoleone III. Solamente in seguito, nel 1864, l’imperatore francese attuò il progetto di costituire un regno del Messico, appoggiato dai grandi latifondisti conservatori e antirepubblicani, sul cui trono doveva sedere Massimiliano d’Asburgo, fratello minore di Francesco Giuseppe d’Austria. Le prime forze francesi giunsero in Messico ai primi del 1862 sbarcando nel porto di Veracruz e incontrando subito una fiera resistenza non appena iniziarono a marciare verso l’interno. Gli spagnoli e gli inglesi, dopo le prime perdite ritirarono le loro truppe, ma Napoleone rifiutò di accettare l’umiliazione di una ritirata. Entro l’anno 40.000 soldati francesi traversarono l’Atlantico e intrapresero un’offensiva che permise, non ostante una continua ed efficace guerriglia, di porre l’assedio a Città del Messico. Ma a bloccare la spinta offensiva contribuiva la resistenza della città di Puebla, che sbarrava la strada tra la capitale e il mare, nelle cui poderose mura non si poteva aprire una breccia se non con l’aiuto di pesanti cannoni d’assedio.
Il 9 febbraio 1863 un reggimento di marcia (vale a dire formato appositamente) della Legione salpò da Orano ed arrivò a Veracruz il 28 marzo. Era composto di due battaglioni di fanteria, una compagnia comando, la banda e la sussistenza al comando del colonnello Jeanningros. Arrivati a destinazione i legionari scoprirono che non avrebbero partecipato alla battaglia ma che il loro compito era assicurare e proteggere le lunghe linee di rifornimento che passavano tra montagne, foreste ed estese paludi tropicali. Il comandante in capo francese generale Forey aveva affermato che quell’incarico ingrato preferiva assegnarlo a degli stranieri piuttosto che a dei connazionali. I legionari si accorsero ben presto che il vero nemico non erano tanto le pallottole juariste quanto le malattie: malaria, febbre gialla, tifo, che in poche settimane decimarono i ranghi.
Alla fine di aprile doveva partire da Veracruz per Puebla un grande convoglio, sessanta carri che trasportavano, oltre a munizioni e approvvigionamenti, i cannoni pesanti d’assedio e tre milioni di franchi in monete d’oro, scortati da due compagnie della Legione. Il 29 aprile Jeanningros, che si trovava con il suo comando a Chiquihuite a sud di Puebla, fu informato da una spia indiana che una imboscata attendeva il convoglio. Non si trattava di guerriglieri ma dello stesso esercito messicano ansioso di impadronirsi delle armi e dell’oro. Il colonnello ordinò allora alla 3a compagnia del 1° battaglione di andare incontro al convoglio per raccogliere informazioni e per unirsi alla scorta. La compagnia, il cui organico sulla carta doveva essere di 120 uomini, contava solamente 62 soldati senza alcun ufficiale. Un membro dello stato maggiore del reggimento, un pezzo d’uomo alto e ben piantato con una barba caprina, il capitano Jean Danjou si offrì di comandare la compagnia. Questo veterano di 35 anni era molto conosciuto per un particolare: aveva sostituito la mano sinistra, persa in Crimea, con una mano di legno legata con una cinghia all’avambraccio. A lui si aggiunsero due tenenti che venivano dalla gavetta da poco promossi sul campo: Vilain, non ancora trentenne, e un arcigno sergente veterano di nome Maudet che aveva combattuto anche in Crimea e a Magenta.
La compagnia, con alcuni muli che portavano acqua e viveri, si mise in marcia circa a mezzanotte per approfittare del fresco della notte, in direzione di Palo Verde, fermandosi solamente per bere una tazza di caffè in un avamposto tenuto dalla compagnia granatieri del battaglione al Paso del Macho. Poi ripresero subito il cammino e all’alba del 30 aprile erano ai piedi delle montagne in mezzo a profonde gole.
Avevano già cominciato a soffrire la calura del mattino quando alle sette raggiunsero la loro meta, il villaggio di Palo Verde composto da poche case diroccate e disabitate. Il capitano comandò la sosta per preparare il caffè. Mentre si accendevano i fuochi fu avvistata una nuvola di polvere sollevata da numerosi cavalieri, tra i quali dei lancieri, che si avvicinavano. Danjou ritenendo il posto desolato, dove si erano fermati, inadatto per sostenere uno scontro, ordinò di ripiegare verso una fattoria diroccata presso Cameròn, da cui erano passati quella mattina, distante circa tre chilometri. Mentre i legionari divisi in due gruppi preceduti da esploratori si ritiravano coperti dalla fitta vegetazione, un guerrigliero nascosto ferì con un colpo di fucile un esploratore. I cavalleggeri messicani, udito lo sparo, avanzarono rapidamente bloccando la ritirata e costringendo Danjou a schierare i suoi uomini in quadrato. I messicani si divisero in due schiere per attaccare i legionari su due lati ma una serie di scariche di fucile disciplinate fermarono la carica con numerose perdite. Mentre i legionari continuavano ad avanzare a passo di corsa verso la fattoria, i messicani lanciarono una nuova carica che questa volta ebbe maggiore successo: sedici uomini, alcuni dei quali feriti furono tagliati fuori e presi prigionieri e i muli, con la preziosissima acqua, furono catturati. Inoltre alcuni cavalleggeri di propria iniziativa arrivarono per primi alla fattoria e si sistemarono sul tetto dell’edificio principale.
Tre ufficiali e 46 legionari raggiunsero gli edifici della hacienda circondata sugli altri tre lati da un muro alto circa tre metri. Le porte degli edifici e i varchi nel muro furono sbarrati con assi e tronchi. Danjou dispose i legionari nelle posizioni più strategiche, dovendo anche difendersi dai colpi dei messicani che si trovavano sul tetto e che avevano iniziato a bersagliare i suoi uomini. Morzycki, un veterano polacco e ottimo tiratore, salì sul tetto di un altro edificio e riferì che la fattoria era completamente circondata da centinaia di uomini. Una staffetta aveva intanto raggiunto l’accampamento della fanteria messicana, distante un’ora di marcia, comandata dal colonnello Milan. Tutti e tre i battaglioni al suo comando, circa duemila uomini armati da moderni fucili nordamericani, furono inviati alla fattoria.
Il combattimento di Camerone, come in seguito fu battezzato dai francesi, durava da circa due ore sotto il sole cocente. I cavalleggeri, circa 800, non attaccavano a fondo in attesa della fanteria. Alle 9.30 un ufficiale messicano si presentò con una bandiera bianca di tregua offrendo una resa onorevole ma Danjou in modo sprezzante lo mandò al diavolo. Molte ipotesi si sono fatte per comprendere l’atteggiamento sprezzante del capitano. Danjou era troppo esperto per non comprendere che la sua situazione era senza speranza e che bastava un piccolo gruppo di nemici per bloccarlo nella fattoria impedendogli ogni sortita. È presumibile che scelse di sacrificare sé stesso e i propri uomini sfidando platealmente il nemico in modo che questi si ostinasse in un assalto inutile ad un piccolo reparto tralasciando l’obiettivo principale, il prezioso convoglio. Questa ipotesi è probabilmente vera e sembra trovar conferma nel successivo comportamento del capitano. Ogni quarto d’ora, strisciando sulle mani e sulle ginocchia, faceva il giro delle difese esortando i suoi uomini a combattere e chiedendo a ciascuno di giurare che non si sarebbero mai arreso. Alle 11.30 Danjou fu colpito alla gola da una pallottola proveniente dal tetto. Il tenente Vilain raccolse la sua spada e gli prese le medaglie perché non cadessero in mano al nemico: adesso era lui a comandare i 32 superstiti.
L’assedio si faceva sempre più serrato, con i messicani che continuavano ad attaccare incuranti delle perdite, che alla fine della giornata ammontarono a più di trecento uomini tra morti e feriti. Il caldo era insopportabile e i legionari erano costretti a bere la loro urina per non impazzire di sete. Alle due del pomeriggio Vilain fu colpito alla fronte e Maudet assunse il comando dei superstiti. La situazione era ormai disperata: combattevano da sette ore, non mangiavano dal giorno precedente e le munizioni scarseggiavano. Verso le 16 i messicani riuscirono a dar fuoco alla paglia dei fienili.
Alle 17 solamente Maudet, il caporale Maine – un ex sergente maggiore dell’esercito regolare francese che si era arruolato come soldato semplice – e tre legionari, Wenzel, Catteau e Constantin, erano ancora in grado di combattere tra le rovine fumanti di un fienile. Resistettero ancora per un poco e quando ognuno di loro ebbe solamente un colpo a disposizione, Maudet diede il segnale. Innestate le baionette spararono l’ultima salva e si buttarono fuori dall’edificio caricando all’arma bianca. Il legionario belga Catteau cercò di far scudo con il corpo al suo ufficiale e morì colpito da una salva di colpi. Anche Maudet fu ferito gravemente da due pallottole. Wenzel fu colpito a una spalla ma si rialzò subito. I tre superstiti erano circondati quando il colonnello messicano Cambas, ammirato dal loro valore, ordinò ai suoi uomini di abbassare le armi. I tre si arresero a condizione di poter tenere le proprie armi e che i messicani si prendessero cura dei feriti. Una ventina di legionari feriti furono raccolti ma molti di loro erano così gravi che non sopravvissero a lungo.
Il combattimento di Camerone fu decisivo per le sorti del convoglio. I messicani rinunciarono all’imboscata e i cannoni pesanti raggiunsero indisturbati Puebla che cadde il 17 maggio. Jeanningros ricevette notizie del combattimento e inviò il giorno successivo una forza di ricognizione che, tra i cadaveri già devastati da sciacalli ed avvoltoi tanto da essere irriconoscibili, trovò il tamburo maggiore della compagnia Lai ancora vivo benché ferito da tre colpi di lancia e da due pallottole. Un mese dopo la battaglia i legionari catturati furono scambiati con dei prigionieri messicani.
La mano di legno di Danjou fu trovata, o forse saccheggiata, da un contadino che un paio di anni dopo la vendette per 50 piastre al generale Bazaine, nuovo comandante in capo dell’armata francese e legionario anch’egli, che la restituì alla Legione. Secondo un’altra versione, la protesi fu ritrovata tre le proprietà del generale messicano Ramirez quando questi fu catturato dal colonnello Grübert, un austriaco al servizio dell’imperatore Massimiliano, che la consegnò ai francesi. La mano, portata nella caserma di Sidi bel-Abbès e chiusa in una teca di vetro, è diventata il cimelio più prezioso della Salle d’Honneur.
Il 30 aprile la Legione festeggia in modo solenne l’anniversario di Camerone. Il Récit du Combat, che racconta i particolari del combattimento, è letto ad alta voce in ogni piazza d’armi, avamposto, accampamento della Legione o in ogni riunione di veterani. È diventato il credo della Legione, la pietra angolare di una tradizione in base alla quale le reclute sono indottrinate: la resistenza assoluta di un gruppo di legionari di fronte a un nemico soverchiante fino a quando ne rimasero in piedi solamente due.
Anche il Messico ha iniziato a festeggiare quel fatto d’arme. Nel villaggio di Camaròn de Tejada nello stato di Veracruz, nel 1964, è stato elevato un monumento in onore dei messicani che persero la vita nel combattimento. I resti dei combattenti delle due parti sono sepolti insieme. Il 30 aprile è diventato un giorno di celebrazione e di festa locale e una rappresentanza della Legione è sempre presente. Ogni militare messicano che passa vicino al monumento è tenuto a rendere il saluto.
* * *
Attualmente la Legione Straniera è così strutturata con un organico di circa 8000 uomini:
1° RE (1er Régiment Étranger): di stanza al Quartier Viennot di Aubagne, Comando supremo della Legione e centro di accoglienza delle reclute.
4° RE (4ème Régiment Étranger): reggimento di accademia militare di base al Quartier Danjou di Castelnaudary. Vi si trovano anche le scuole allievi ufficiali e allievi sottufficiali.
1° REC (1er Régiment Étranger de Cavalerie): di base a Orange.
2° REI (2ème Régiment Étranger d’Infanterie): di base a Nîmes.
1° REG (1er Régiment Étranger de Génie): di base a Laudun.
2° REG (2ème Régiment Étranger de Génie): di base a Saint-Christal.
2° REP (2ème Régiment Étranger de Parachutistes): di base a Calvi in Corsica.
3° REI (3ème Régiment Étranger d’Infanterie): di stanza nella Guyana Francese.
13a DBLE (13ème Demi-Brigade de la Légion Étrangère): di stanza a Gibuti.
DLEM (Détachement de la Légion Étrangère de Mayotte): di stanza nelle Isole Comore.
A cura di Pietro Pizzoni
Incontro in Interclub con il RC Milano Sempione e RC Milano Aquileia di Martedì 8 Ottobre 2013 con il Prof. Maurizio Ferrera : "Giovani di oggi, lavoro di domani"
In interclub con il Milano Sempione ed il Milano Aquileia si è svolta martedì scorso, all’hotel Manin, la conviviale con il prof. Maurizio Ferrera sul tema il lavoro ed i giovani. Nutrita la partecipazione dei soci dei tre club, che hanno riempito la sala del ristorante, intervenuti per ascoltare la sua relazione.
Tanti soci e tanti giovani rotaractiani (in bella mescolanza) per la conferenza al Manin del prof. Ferrera. Grande è infatti l’interesse e la curiosità per il futuro dei nostri giovani.
Ebbene, dalla brillante presentazione del professore abbiamo imparato tante cose (non riassumibili purtroppo in questa sede).
La prima è che la sua stessa esperienza giovanile con il Rotary è stata determinante per la sua vita lavorativa (partendo dalla borsa di studio della Rotary Foundation che lo ha portato a Stanford).
Siamo poi entrati in una serie di affascinanti input relativi all’oggi e al probabile domani: rischi e opportunità / istruzione /la componente femminile / l’interconnessione / la globalizzazione / le aree economiche di sviluppo / il welfare / l’evolversi della struttura sociale / l’Asia e la Cina / la bicicletta (competenze di base sociali cognitive ecc) / i MOOC (massive open online courses) / le bussole di valore per raggiungere e restare nella “room at the top” e tanto altro.
In sintesi, i nostri giovani “millenials” hanno fatto una full immersion nel futuribile e ne sono usciti pensosi ma sicuramente determinati ad affrontare sfide e cogliere opportunità (non saranno sicuramente né “bamboccioni” né “choosy”).
Forza ragazzi e goodluck!
A cura della Segreteria
Incontro di Giovedì 3 Ottobre 2013 con Luigi Mariani : "Clima e storia della vite e del vino"
Pubblichiamo una sintesi dell’interessante relazione del socio Luigi Mariani tenutasi giovedì scorso.
CLIMA E STORIA DELLA VITE E DEL VINO
Luigi Mariani – Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura e Università degli Studi di Milano (Disaa. Varie evidenze archeologiche frutto in particolare delle ricerche di Patric Mc Govern ci dicono che la vite è stata domesticata nell’areale caucasico oltre 7000 anni orsono.
La migrazione della vite verso il Mediterraneo, richiamata in forma mitica dal viaggio d i Dioniso, la dobbiamo forse ad un violento cambiamento climatico che interessò l’areale d’origine fra 6000 e 4000 anni orsono, spingendo la vite verso l’Europa.
Qui la vite domestica ha iniziato a confrontarsi con un clima i cui tratti distintivi sono la grande variabilità interannuale, con il continuo alternarsi di annate più fredde e piovose ed annate più calde ed asciutte. Questo tratto distintivo del clima euro-mediterraneo, già evidenziato dal grande georgico latino Columella nel De re rustica, risulta evidentissimo analizzando le serie storiche secolari delle date di vendemmia(disponibili ad esempio per Francia, Svizzera, Valtellina, Austria) che costituiscono un patrimonio informativo unico, da interpretare alla luce del fatto che la precocità della vendemmia è funzione delle temperature del periodo aprile giugno (più miti sono le temperature di tale periodo e più precoce sarà la vendemmia).
In particolare la serie storica 1370-2010 delle date di vendemmia a Beaune (Cote d’or – Burgogne) pubblicata dagli storici francesi Labbè e Gaveau, evidenzia la presenza di 3 fasi climatiche distinte: fase a vendemmie precoci dal 1370 al 1739, fase a vendemmie tardive dal 1740 al 1969 e nuova fase a vendemmie precoci dal 1970 ad oggi. La data di vendemmia più precoce è il 1556, in anticipo di circa 1 settimana rispetto al 2003. La stessa serie evidenza l’enorme variabilità interannuale esistente nelle date di vendemmia, sintomo di un clima il cui motto potrebbe a buona ragione essere considerato “stabilità nella variabilità”, un clima con cui i nostri antenati agricoltori si sono confrontati sempre con successo adottando adattamenti di tre tipi: adattamento delle genetica (portinnesti, varietà, adattamenti delle tecniche colturali (es: costruzione di terrazzamenti nei periodi freddi della piccola era glaciale) e scelta delle aree colturali (es: Virgilio narra che nel periodo caldo romano si evitavano le esposizioni ovest.
La mortale di tutto ciò è che chi fa oggi agricoltura è tenuto a conoscere a fondo tali caratteristiche del nostro clima per convivere proficuamente con esso.
Dopo questo breve excursus storico, si è fatto cenno al cambiamento climatico che ha interessato l’area europea nella seconda metà degli anni ’80 a seguito di una brusca riconfigurazione della circolazione generale. A seguito di ciò siamo entrati in una nuova fase climatica caratterizzata da temperature medie annue che per l’area italiana sono superiori di 1 / 2°C rispetto a quelle delle periodo precedente mentre le precipitazioni mostrano delle tendenze meno chiare da definire in modo sintetico (e di cui si parlerà comunque nel corso dell’intervento).
Le temperature più elevate hanno implicato anche una maggiore aridità e tutto ciò si è tradotto in mosti con più zucchero e più colore, il che richiede una diversa attenzione a livello di vigneto e di cantina. Se tali accorgimenti sono rispettati, anche con il nuovo clima è possibile mirare a prodotti di qualità elevata. Le più elevate temperature comportano una risposta fenologica delle vite che si traduce in particolare in un anticipo di 10 – 20 giorni nelle date di maturazione, anticipo che può rivelarsi positivo in quanto evita le raccolte eseguite in coincidenza con i massimi precipitativi autunnali.
La presenza di condizioni di stress idrico comporta una attenzione particolare alla gestione dello stress stesso (bilanci idrici per valutarne l’entità in tempo reale, pratiche agronomiche tese a favorire l’approfondimento delle radici della vite e, ove strettamente necessario, ricorso all’irrigazione).
A cura di Fabio Toldo
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