mercoledì 27 marzo 2013

Incontro di Giovedì 21 Marzo 2013 con Piero Dell'Acqua: "Leonardo: i dipinti del suo primo soggiorno milanese"

In un sereno clima pre pasquale Piero Dell'Acqua ci ha intrattenuti sui dipinti del primo soggiorno milanese di Leonardo.
Riportiamo qui di seguito la relazione la cui sintesi sarebbe stata pressoché impossibile anche per il migliore redattore. 

“ Aveva trentanni che dal detto Magnifico
fu mandato insieme con un giovane
musico, Atalante Migliorotti, a
presentargli una lira, unico era in
suonare tale strumento, impreziosito
da un intaglio a forma di muso d’ariete,
un’invenzione e opera di messer Lionardo
stesso. “
 (VASARI)

Nel 1482, infatti, Leonardo volge le spalle alla sua amata giovinezza fiorentina, ed insieme a un musico, Atalante Migliorotti, giunge a Milano con una lettera di raccomandazione di Lorenzo il Magnifico per presentare a Ludovico il Moro una lira d’argento, da lui realizzata.
La lettera, dal 1637 racchiusa nel Codice Atlantico alla Pinacoteca Ambrosiana, non fa solo riferimento alla lira ma a lavori d’ingegneria, di arte militare e di opere di pittura: “Ho modi di fare ponti leggerissimi e forti …………. o modi di bombarde comodissime…….. cose da offender e difendere……… conducerò in sculptura di marmore, di bronzo e di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare a paragone da omni altro.”
Per Leonardo, la possibilità di entrare in contatto con quella che sta diventando una delle più importanti corti d’Europa, è un’occasione d’oro. E così dopo i primi incontri con il duca, l’artista esprime, in uno scritto, il suo pensiero sulla realizzazione di un monumento equestre dedicato a Francesco Sforza, il padre di Ludovico.

 
“……….. non sarà gloria immortale
e eterno amore de la felice memoria
del Signor vostro padre e de la
insolita casa sforzesca”.

Il Moro ha già conosciuto Leonardo presso lo studio di Andrea di Francesco di Cione, detto il Verrocchio, durante una visita fatta a Lorenzo dei Medici, a Firenze. In quell’occasione si era a lungo soffermato davanti a un dipinto che rappresentava il “Battesimo di Cristo”.  L’opera, olio a tempera su tavola, dal 1914 alla Galleria degli Uffizi a Firenze, era stata commissionata dall’ordine dei Vallombrosani per la chiesa di San Salvi a Firenze.
Ammirato dalla maestria dell’esecuzione e della perfezione di un “angelo”, Ludovico commentò che vi si poteva distinguere facilmente la grande abilità del maestro in quanto si poteva notare la grande differenza dell’”angelo” con il resto della pittura che, senza dubbio, era opera di uno dei suoi allievi.
Verrocchio rispose, senza scomporsi, che egli aveva ragione poiché l”angelo” era stato dipinto sì da un maestro pittore, ma non si trattava di lui, bensì dal suo discepolo preferito Leonardo.
A Milano, Leonardo non conquista tanto rapidamente i favori della Corte sforzesca e così è costretto a riprendere subito in mano i pennelli.
Si associa ad una bottega locale in modo da assicurarsi un tetto e del lavoro “Similmente utile compagnia, perché l’un senza l’altro non vale troppo” trova così alloggio presso la parrocchia di San Vincenzo, a Porta Ticinese, dove vivono e lavorano i fratelli De’ Predis.
Ed è proprio insieme a loro che il 25 aprile 1483 stipula un contratto con la Confraternita dell’Immacolata Concezione, un’associazione costituita da molti laici delle famiglie più illustri della città, per la realizzazione di un’ancona da porsi sull’altare della cappella dell’Immacolata nella chiesa di San Francesco Grande, non lontana dalla basilica di Sant’Ambrogio, la maggior chiesa dopo il Duomo che verrà completamente distrutta nel 1576.
Il contratto, nel quale sono coinvolti in solido il “Magister Leonardus de Vinciis florentinus” e “Evangelista et Johannes Antonius frater De’ Predis” stabilisce che l’ancona, preparata da Giacomo del Maino, intagliata in legno con bassorilievi e spazi per inserirvi riquadri per pitture, venga revisionata, dorata e colorita nel laboratorio del monastero, mentre le altre tavole possono essere eseguite dagli artisti nei loro studi.
La tavola centrale, che dovrà contenere la “Madonna col Bambino”, contornata da un gruppo di angeli e due profeti, viene affidata a Leonardo, mentre, per le due tavole laterali, che dovranno prevedere quattro angeli per ciascuna, gli uni in alto di suonare, gli altri di cantare, responsabili dell’esecuzione del lavoro sono i fratelli De’ Predis.
Il lavoro dovrà essere pronto entro sette mesi con la garanzia del buono stato di salute dell’ancona per almeno dieci anni, e il pagamento concordato consiste in 800 lire imperiali di “buona moneta milanese corrente” più il riconoscimento di un conguaglio.
Completato il dipinto, il cui soggetto centrale era assai poco somigliante a quanto concordato nella commessa, niente profeti e un solo angelo con la Madonna col Bambino, gli artisti sono così delusi dal basso conguaglio che danno avvio ad una controversia che durerà parecchi anni.
La bellezza del dipinto nella parte centrale è tale comunque da invogliare diverse persone ad offrire molti soldi, e così Leonardo alcuni anni dopo pare abbia venduto per ben 1.200 lire il dipinto ad un acquirente che la critica ha identificato col re di Francia Luigi XII. Il dipinto, olio su tavola di 199x132 centimetri, oggi riconosciuto come la “Vergine delle Rocce” si trova a Parigi al Musée du Louvre.
A lungo il legame tra questo dipinto e una seconda versione dello stesso soggetto, oggi alla National Gallery di Londra, sempre realizzata dall’artista con una variante, è stato avvolto nel mistero per alcuni secoli.
Solamente attraverso una lunga catena di documenti sui vari passaggi di proprietà, il secondo dipinto, portato a termine non più tardi del 1508, fu venduto, nel 1785, dall’amministratore dell’ospedale Santa Caterina alla Rota, che lo aveva ricevuto dalla Confraternita, come opera guasta e di cattiva scuola: “………….. ed ecco che ci liberiamo da un mobile che andava in perenzione ogni giorno, profittando di una somma in pro della nostra casa” al pittore Gavin Hamilton per la modica cifra di 1582 lire, a prezzo di cianfrusaglia.
Un secolo dopo, la tavola viene acquistata dalla National Gallery di Londra per 250.000 franchi.
La “Vergine delle Rocce” permette così a Leonardo di stabilirsi a Milano in qualità di pittore, ma il suo sogno rimane sempre quello di un incarico a corte ………. poco tempo dopo si realizzerà.
Nel frattempo l’artista va pertanto a caccia di denaro accettando ogni genere di commissione.
In breve tempo, Leonardo riesce sempre più a conquistarsi la fiducia del Moro, tant’è che il duca arriva a proporgli di realizzare un ritratto della sua amante: Cecilia Gallerani.
Nata nel 1465 da Fazio, nobile milanese e già ambasciatore a Firenze, grosso proprietario terriero fra Brugherio e Carugate, Cecilia ha solo sedici anni quando Ludovico “le va dietro dapertuto e li vuole tanto il suo bene” e le dona il feudo di Saronno.
Dominatrice per dieci anni della corte ducale, per bellezza, ingegno e doti nell’animo, sposa dopo il matrimonio del duca con Beatrice d’Este, il conte Bergamini di Cremona e va ad abitare a Milano nel suo palazzo del Broletto.
Il dipinto, olio su tavola di 54x39 centimetri, acquistato alla fine del ‘700 dal principe polacco Adam Czartoryski e donato al museo privato di sua moglie, si trova oggi a Cracovia, e conosciuto come la “Dama dell’ermellino”.
L’ermellino è tradizionalmente simbolo di castità e può essere da un lato una allusione al nome di famiglia di Cecilia (Gallerani, infatti, ricorda per assonanza, il termine greco galée che significa ermellino), da un altro pure un’allusione che vincola il duca alla sua amante.
Infatti, nel 1488, il Moro è stato insignito dell’Ordine dell’Ermellino, una investitura che gli adulatori non perdono di enfatizzare la portata “Tutto ermellino è, se ben un nome la nero”.
Ritenuto dalla critica come il primo ritratto moderno, non solo è una pagina importante della storia del costume, in quanto per la prima volta è raffigurato il nuovissimo abbigliamento delle nobili milanesi sul finire del ‘400, ma supera tradizioni consolidate sulla ritrattistica rinascimentale italiana, a cominciare dalla rappresentazione della protagonista in angolo, di trequarti, non più di profilo.

“………… E’ cosa mirabile che quello
ingegno che avendo desiderio di dare
sommo rilievo alle cose che egli
faceva, andando tanto con l’ombra
scura a trovare i fondi de’ più
scuri………. per fare che’l chiaro,
mediante quelli fosse più lucido…..……”
(VASARI)

Leonardo affermando che “Lo ingegno del pittore vole essere a similitudine dello specchio” evidenzia il tema caro della cultura dell’epoca, della competizione fra arte e natura; tema raccolto anche dal poeta di corte Bernardo Bellincioni nel sonetto appunto dedicato al ritratto:

“Di che t’adiri? A chi invidia hai Natura?
Al Vinci che ha ritratto una tua stella;
Cecilia, si bellissima oggi è quella
che a’ suoi begli occhi, il sol par ombra scura.
Ringratiar dunque Ludovico or puoi
Et l’ingegno e la man di Lionardo,
che ‘ a posteri di lei voglion far parte.
Chi la vedrà cosi, benché sia tardo
Vederla viva, dirà: basti a voi
Comprender or quel che è natura et arte.”

In questo stesso periodo l’artista realizza un altro capolavoro: Il “Musico”, l’unico suo ritratto maschile.
Per diversi secoli, dell’olio su tavola di 43x31 centimetri, oggi a Milano alla Pinacoteca Ambrosiana, si è creduto che quel giovane, finitissimo nel volto e nei suoi primi piani della capigliatura, fosse un personaggio della corte sforzesca.
Ma quando, nel 1905, il quadro verrà ripulito, con un accurato lavaggio, si scoprirà che il modello tiene in mano una pergamena dove figurano un pentagramma e le parole semicancellate “Cant……. Ang……” che complete possono essere “Canticum Angelicum”, il titolo di una composizione di Franchino Gaffurio, lodigiano, maestro di cappella nel Duomo di Milano, tecnico musicale e uomo di cultura.
Frequentatore della vita di corte sforzesca, riunisce con assiduità brillanti personalità artistiche quali quella di Leonardo, i cui rebus musicali testimoniano una certa conoscenza della scrittura musicale:

“La musica è sorella della pittura,
una sorella minore e infelice,
perché svanisce di volta in volta.”

Nel 1495, il Moro ha un’altra amante.
E’ Lucrezia Crivelli, una delle damigelle di Beatrice, alla quale egli donerà terre a Saronno e a Cusago.

“Tutto il suo piacere era con una
fante che era donzella della moglie,
con la quale el non dormiva già……..”
(MURATORI)

Anche per Lucrezia il duca commissiona un ritratto di mano di Leonardo “La Belle Ferronière” o “Ritratto di Dama”, olio su tavola di 64x45 centimetri, oggi a Parigi al Musée du Louvre.
Dal diario di Salai, il suo allievo preferito:

 “Oggidì 23 maggio 1495, Lionardo conchiude
terminare il ritratto di Madonna Lucrezia
de’ Crivelli. Quanto questa donna abbia
in superbia superato le altre favorite del duca
non è cosa difficile da dirsi. Mai stava ferma
e  quieta, né a niente son valsi i musici…………
Donna superba. Non ha mai sorriso e magistro
Lionardo era sul punto di non conchiudere il retracto.”

Inizialmente  il dipinto, che faceva parte della collezione del re di Francia, nel catalogarlo, viene confuso con un altro.
L’equivoco venne poi risolto nell’ottocento da un epigramma rinvenuto nel Codice Atlantico, i cui versetti celebravano la bellezza della donna, ma anche l’amore e il potere del suo amante, rendendo nel contempo, omaggio alla maestria del pittore:

“Il nome di quella che vedi è Lucrezia
alla quale gli dei elargirono ogni dono
con generosità. A lei fu data rara beltà:
la dipinse Leonardo, l’amò il Moro;
questo primo tra i pittori, quello fra i duci.”

Sempre dal diario di Salai si può dedurre l’anno di inizio dell’opera più importante dell’artista: il “Cenacolo”, opera su intonaco di 4,6 x 8,8 metri, nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie.
Diversi documenti tuttavia fissano il periodo d’esecuzione e il tema preciso del dipinto.
Il primo è una lettera, oggi presso l’Archivio di Stato di Milano, di Ludovico a Marchesino Stampa, del giugno 1497 con l’incarico ”……… de solecitare Lionardo fiorentino perché finisca l’opera del refettorio delle Gratie principata………”.
Un altro, oggi presso la Pinacoteca Ambrosiana a Milano, è uno scritto di Luca Pacioli, matematico, nella dedicatoria del suo trattato “De divina proportione” al duca di Milano, dell’8 febbraio 1498, a proposito  del dipinto: “Non è possibile con maggior attenzione vivi gli apostoli al suono della voce dell’ineffabile verità: Unus vestrum me traditurus est, dove con acti e gesti l’uno e l’altro e l’altro con viva et afflicta admiratione par che parlino sì degnamente con sua ligiadra mano al nostro Lionardo lo dispose”.
Altra testimonianza è quella di Matteo Bandello, nipote del priore domenicano di  Santa  Maria  delle  Grazie,  nel  preambolo  alla  cinquattotesima  novella, redatto nel giugno del 1497:

“…………. nel refettorio delle Grazie vi
fossero alcuni gentiluomini a contemplare
il miracoloso e famosissimo Cenacolo di
Cristo con i suoi discepoli che allora
l’eccellente pittore Lionardo Vinci
fiorentino dipingeva; il quale aveva
molto caro che ciascuno, veggendo la
pittura, liberamente dicesse sovra quelle
il suo parere.
Soleva anco spesso, ed io più volte l’ho
veduto e considerato, andar la matina
a buon’ora a montar sul ponte, perché
il Cenacolo è alquanto da terra alto;
soleva, dico, dal nascente sole sino a
l’imbrunita sera non levarsi mai il
pennello di mano, ma, scordatosi il
mangiare e il bere, di contino dipingere.
Se ne sarebbe poi stato due, tre e quattro
dì che non v’averebbe messa mano, e
tuttavia dimorava talora, una e due ore
del giorno; e solamente contemplava, esaminava,
ed esaminando fra sé, le figure giudicava………..”

L’opera va così avanti molto lentamente, sembra che non abbia mai termine, tanto che il priore del convento si decide a scrivere al Moro: “Signoria, vi resta solo a fare la testa di Giuda che tutte le altre immagini son compite…….. ma è più di un anno intero che non è stato a vederla”.
Leonardo viene a conoscenza della lettera dei frati e anche lui si decide a scrivere al Moro:

“Vostra Eccellenza, ho saputo che il priore
di Santa Maria delle Grazie si è recato da
Voi e si è lamentato della presunta mancanza
di progressi nell’affresco. Nell’Ultima Cena
il Nostro Signore, nel suo refettorio. Vostra
Eccellenza deve sapere che tutto è sostanzialmente
concluso salvo la testa di Giuda. Egli era,
come tutti sanno, di straordinaria malvagità,
e dovrà quindi avere un aspetto adeguato alla
sua perfida natura. A questo scopo, da circa un
mese, se non di più, percorro giorno e notte le
strade del Borghetto, dove Vostra Eccellenza sa
che vivono molti dei ruffiani di Milano.
Ma non sono ancora riuscito a trovare un volto
adatto. Appena l’avrò trovato, finirò l’affresco
in una sola giornata. Ma se la mia ricerca di un
modello adatto continuerà a rivelarsi infruttuosa,
userò il volto del priore che è venuto a lamentarsi
di me presso di Voi, perché risponderebbe perfettamente
alle mie esigenze. Ma non ho ancora deciso di
renderlo oggetto di scherno nel suo refettorio”.

Il Moro alcuni mesi dopo la conclusione dell’opera, invia a Leonardo la seguente lettera:

“Caro Maestro, troverete accluso il
documento di proprietà di una casa
e di una vigna appena fuori Porta Vercellina,
non lontano da Santa Maria delle
Gratie ………. oltre a produrre del
buon vino, la vigna rende anche parecchio
……….. Siete stato al mio servizio diciotto
anni, avete fatto molti lavori, e in tutti
avete dimostrato un genio ammirevole ……….
Benché questo dono sia piccolo in confronto
ai vostri talenti e ai vostri meriti, vi prego
di accettarlo come un segno che troverete
sempre in me, come in passato, un leale
protettore …………. .”

Il 2 settembre 1499 l’arrivo dei francesi a Milano con alla testa Luigi XII costringe Ludovico Sforza a fuggire da Milano. Leonardo sistema a questo punto tutti i suoi affari e negli ultimi giorni dell’anno lascia la città, chiudendo così la pagina più bella della sua vita.

“I cieli possono far piovere i doni più ricchi
sugli esseri umani in modo naturale, ma
talvolta con incredibile abbondanza elargiscono
a un unico individuo bellezza, grazia e abilità
tanto che qualunque cosa faccia, ogni azione è
tanto divina da eclissare ogni altro uomo, ed
è chiaro che il suo genio è un dono degli dei
e non deve nulla all’umana fatica.
Questo hanno visto gli uomini in Leonardo da Vinci”
(VASARI)

Al termine della relazione ed  dei copiosi applausi Monsignor Fumagalli ha fatto presente come Leonardo e la Sua opera costituiscano per la nostra città e per il mondo intero un grande dono.
Le Sue opere ci hanno lasciati estasiati nel passato e non finiranno di stupirci anche nel futuro.
A conferma di ciò osserviamo che difronte alla biblioteca Ambrosiana è in fase di realizzazione un imponente monumento costituito da un totem di oltre tre metri, realizzato da Libeskind.
Esso, secondo le tecnologie più moderne, è realizzato in lega metallica con monitor lcd, e consentirà di visualizzare una composizione di figure geometriche che vuole evocare pensieri, parole, opere e rivoluzioni di Leonardo da Vinci.
Parallelamente il prossimo 22 aprile si inaugurerà a Tokyo la mostra "Leonardo e la Sua cerchia" dell'Ambrosiana di Milano. 
La mostra è organizzata dall'Ambrosiana con l'Università di Tokyo (la più famosa università asiatica).
Tokyo diventa così un ponte culturale che congiungerà Milano con l'oriente e che consentirà di gettare e irrobustire legami di culture e di pace e così, ancora una volta l'arte italiana costituisce fonte di ispirazione artistica e di pace nel mondo.
Il tocco della campana e gli auguri di Pasqua rivolti a tutti dal Presidente hanno posto fino alla serata.
                                                                                              
                                                                                              A cura di Massimo Audisio