Giovedì 26 gennaio 2012 abbiamo avuto il tradizionale appuntamento con la relazione del socio Piero Dell'Acqua che quest'anno ci ha piacevolmente intrattenuto sulla Galleria Vittorio Emanuele raccontata con la consueta passione per la sua città.
“A Milano, passammo la maggior parte del tempo all’interno del grande e magnifico passage, o galleria ……….. Vorrei poter vivere qui tutta la mia vita.” (Mark Twain)
La Galleria Vittorio Emanuele, centro delle vicende amministrative, politiche, culturali e sociali della città, da quasi cinquantanni, è uno dei simboli di Milano, come esige una tradizione avvalorata dagli scritti di importanti letterati. Si disse, all’epoca della sua realizzazione, che sembrava costruita per giganti e non per esseri umani, ma, tuttavia, sono proprio le sue dimensioni ad impedirle di essere opprimente. Alcuni sostenevano che le correnti d’aria, che vi si producevano, sarebbero state dannose per la salute e avrebbero così inibito, all’aperto la frequentazione dei tavolini dei locali pubblici. Altri lamentavano che la costruzione avrebbe provocato la distruzione di una ingente parte del tessuto urbano. Molto diffuso era anche il timore che, quando fosse stata completata in tutte le sue parti, grazie alla protezione delle sue vetrate, sarebbe diventata un rifugio, soprattutto notturno, di vagabondi, di emarginati e malviventi. Tuttavia, dopo il suo completamento, il popolo milanese se ne appropriò subito, ne fece una “casa” sua, concedendo il privilegio dell’osservazione ai forestieri e ai visitatori stranieri. Divenne così un elegante “salotto” e, nel contempo, un vasto salone in cui c’era posto per tutti. Il 19 agosto 1859 veniva letto al Consiglio comunale un rapporto avente per oggetto la dedica al re di una via da aprirsi tra la piazza del Duomo e la piazza della Scala.
“E’ un vero bisogno pubblico che le strade postali si avvicinino tra loro all’interno della città per la linea più breve e convergano ad un punto comune affinché il viaggiatore abbia una direzione certa per continuar il cammino dall’una all’altra nella entrata e nella uscita ……….. Sarà aperta una via rettilinea di comunicazione …………decorata di edifici laterali ………….. La nuova via sarà dedicata a S.M. il re Vittorio Emanuele e ne porterà l’augusto nome ……….”
Il 4 dicembre 1859, re Vittorio Emanuele, in attesa della proclamazione del regno d’Italia, autorizzava il municipio milanese ad istituire una lotteria di due milioni, a biglietti di dieci lire l’uno, con l’impegno di destinare il ricavato alla definitiva soluzione del problema di sistemazione di piazza del Duomo. Alla vigilia della proclamazione del regno, Milano contava 184.000 abitanti distribuiti in cinquemiladuecento case su un’area di 794 ettari. Era una città murata in quanto i suoi confini correvano lungo la cerchia dei bastioni spagnoli e si comunicava con l’esterno solo attraverso porte. Centotrentamila abitanti risiedevano nella parte centrale
della città, delimitata dalla fossa del Naviglio. L’8 maggio 1861 il Comune bandiva un concorso che metteva a disposizione premi di 15.000, 10.000 e 5.000 lire ai tre migliori progetti presentati, concorso al quale parteciparono ben diciotto professionisti. Nessuna delle proposte presentate fu ritenuta meritevole di vittoria, ma, dopo interminabili sedute, grotteschi litigi, ripensamenti, la commissione giudicatrice approvava il progetto generale planimetrico, firmato con lo pseudonimo “Dante”, sotto il quale si celava l’architetto bolognese Giuseppe
Mengoni. L’opinione pubblica intanto, a mano a mano che le proposte si rendevano note, non mancava di prendere posizioni. Erano molti i milanesi che non vedevano di buon occhio sventramenti e demolizioni che l’amministrazione andava progettando e attuando. Anche la stampa era divisa tra chi sosteneva a gran voce le istanze di rinnovamento invocate dagli amministratori e coloro che, al contrario, profondamente abbarbicati alle loro radici, respingevano, a priori, qualsiasi progetto di ammodernamento del tessuto cittadino.
Il percorso burocratico del progetto era stato disseminato non solo di ostacoli di carattere tecnico – organizzativo, ma, anche, soprattutto di intoppi di natura speculativa. Vicende che più di tutte avevano evidenziato l’estrema disinvoltura con cui alcuni amministratori avevano operato nell’ambito della gestione del denaro pubblico. Un caso era stato quello di un esattore comunale,
il ragionier Pietro Conconi che, fiutato il vento favorevole, aveva pensato bene di mettersi a commerciare immobili, utilizzando il denaro del Comune, tanto che, ad un controllo risultò un ammanco di un milione e seicentomila lire. Un altro caso fu quello riguardante l’assessore Giovanni Battista Marzorati, cognato del sindaco Antonio Beretta. Il Marzorati aveva acquistato due immobili, due casupole fatiscenti, inclusi tra quelli destinati all’abbattimento per la costruzione della Galleria, subito venduti al Comune per una cifra più che doppia rispetto al valore reale. E non basta; mentre tutti gli altri proprietari avevano ricevuto in pagamento contanti per la metà del valore degli immobili espropriati e l’altra metà era stata saldata con cartelle di rendita del Comune, il contratto tra quest’ultimo e Marzorati, stilato dal notaio Sormani in data 18 agosto 1864, prevedeva invece: “Ogni pagamento da farsi dal Comune, compratore, dovrà eseguirsi in Milano in buoni denari sonanti d’oro e d’argento ……”.
Per quanto accaduto, il 14 luglio 1867, il cavaliere dottor conte Antonio Beretta rassegnava le dimissioni da sindaco. Il 7 marzo 1865, il re Vittorio Emanuele II compiva il solenne rito della posa della prima pietra della Galleria, che avrebbe preso il suo nome.
Racconta “ L’Illustrazione Italiana” : “ Il tempo era orribile, nevicava a larghe falde, tuttavia la gente accorreva”.
La prima pietra era costituita da un blocco di granito scavato nel centro e contenente una cassetta di piombo in cui erano racchiusi il verbale di approvazione del progetto, i disegni, alcune fotografie scattate nella occasione, e alcune monete d’oro inglesi e italiane. Il masso, collocato nelle fondamenta di un pilastro, era stato sigillato con un coperchio di marmo su un lato del quale era scolpito il disegno della piazza e sul lato opposto era incisa la seguente epigrafe:
“Vittorio Emanuele II, re d’Italia pose la prima pietra il 7 marzo 1865, il re magnanimo che
rivendica l’Italia e la libertà di Milano, inizia le grandi imprese del lavoro e dell’arte, che,
nella libertà, hanno vita rigogliosa e feconda.”
L’architetto Mengoni, presentò al re, in un recipiente d’argento, la calce ed una cazzuola, e Vittorio Emanuele gettò un po’ di cemento sulle connessioni fra la lastra di marmo ed il battente
dell’incassatura. Qui finiva la cerimonia civile e cominciava quella religiosa. Il Mengoni, che aveva commissionato a Domenico Induno un dipinto raffigurante la cerimonia della posa della prima pietra per conto della società inglese costruttrice dell’opera, dovette purtroppo alla fine pagarlo di tasca propria.
Domenica, 15 settembre 1867. Era una bella giornata ben diversa da quella tempestosa che aveva fatto da sfondo alla posa della prima pietra, circa trenta mesi prima. Le strade circostanti e la piazza del Duomo erano gremite di folla già molto prima del momento fatidico. Gli invitati erano in attesa in abito di gala, rigorosamente nero. Il sopraggiungere di sua maestà fu annunciato dal rullo dei tamburi e dagli squilli della fanfara reale. Il re arrivò a bordo di un cocchio, accompagnato dal presidente del consiglio, l’avvocato Urbano Rattazzi, dal ministro dei lavori pubblici e dal suo aiutante di campo. Con la presenza dell’architetto Giuseppe Mengoni e di sir Lowe, rappresentante della società costruttrice “The City of Milan Improvements Company Limited”, il sindaco Antonio Beretta, rendendo gli onori di casa al sovrano, proclamò: Sire, la città di Milano confida che questo grande edificio dovuto al felice connubio dell’arte italiana coi capitali stranieri, e occasione di tanto vantaggio per le classi laboriose, al cui benessere sono costantemente rivolti i vostri pensieri come il furono le nostre cure, sia per riuscire alla Maestà Vostra gradito.” Già da un solo primo sguardo Vittorio Emanuele II sembrò entusiasta dell’opera a lui intitolata ed esclamò : “Dicono che non si fanno più miracoli, ma questo è uno!”.
Dopo i discorsi ufficiali, iniziarono i festeggiamenti: pranzo a palazzo Reale, concerti di bande in diverse piazze ………… folla festante ovunque. Tutta la stampa ebbe espressioni entusiaste:
“Noi non resteremo a ripetere il resoconto ufficiale della festa; per gli scettici sarebbero parole perdute, per chi conserva ancora qualche fede nei vergini entusiasmi del popolo, ripeteremo soltanto che quello fu un giorno di vera e spontanea festa.”
Così scriveva il raffinato “Corriere delle Dame” che una settimana dopo aggiungeva:
“Oramai, otto giorni dopo l’apertura, la popolazione di Milano ha fatto ripetutamente la sua rivista minuziosa di tutto l’edificio, benché l’illuminazione sia ridotta alle modeste proporzioni della vita quotidiana … Si può fin d’ora prevedere che la Galleria diventerà il luogo prediletto di ritrovo dei milanesi, il passaggio più comodo e più ricercato nelle serate d’inverno, il centro della vita elegante della città …… E si noti che manca uno degli ornamenti più vitali della Galleria, quello dei negozi, i quali, quantunque, quasi per intero già appropriati ai più ricchi mercanti, sono ancora oggi oscuri e vuoti e non verranno occupati che dopo il san Michele.”
Fece eccezione alla regola solo Paolo Biffi, già proprietario di due offellerie, una in corsia del Duomo e l’altra in contrada Santa Maria alla Porta, che ebbe l’audace intuizione di giudicare l’Ottagono l’ombelico della città e del mondo attorno a Milano e riuscì così ad aprire, solo pochi giorni dopo l’inaugurazione della Galleria, un vasto ed elegante caffè che fu immediatamente invaso da una folla di gente.
“I guadagni che l’intraprendente industriale fece in pochi giorni si fanno ascendere a somme favolose, e certo, se l’aura gli spira propizia per qualche giorno ancora, egli avrà messo insieme quanto occorre per pagare la non tenue pigione di trentamila lire, che stipulò per ogni anno che terrà i locali ora occupati.”
Così scriveva “Il Corriere delle Dame”.
Le grandi specialità del Biffi furono il “melange”, una mistura analcolica, e il panettone, del quale Paolo Biffi soleva spesso dire: “I miei panettoni stanno nella famiglia pastacea come un cardinale nella gerarchia ecclesiastica.”
Il Biffi ebbe il suo battesimo di fuoco pochi giorni dopo l’inaugurazione. Si era saputo a Milano che Garibaldi, al tentativo di varcare il confine dello stato Pontificio per la marcia su Roma, era stato arrestato ed era stato imprigionato a Varignano ove rimase alcuni giorni prima di salpare per Caprera. Assembramenti di giovani e cortei occuparono la Galleria e ci furono tafferugli ed arresti. Un grande cristallo del Biffi andò in frantumi ed un ritratto fu asportato da una sala e recato con grandi ovazioni fino alla Contrada del Monte.
Poco tempo dopo Giuseppe Campari, quando seppe che il Coperto dei Figini e il Rebecchino sarebbero stati abbattuti per il progetto mengoniano di sistemazione della piazza del Duomo, da Novara venne a Milano, aprì la sede provvisoria del Caffè Campari in contrada del Duomo, affrettandosi a prenotare una bottega nella costruenda Galleria Vittorio Emanuele.
Il Caffè diverrà universalmente molto famoso. Noto come “angolo del Campari” fu il punto ideale per appuntamenti e incontri galanti. Successivamente nel sotterraneo del locale nacquero il
“Fernet Campari”, preparato secondo la formula del dottor Fernet, e il famoso
bitter, chiamato inizialmente “Amaro d’Olanda” che, in breve tempo, conquisterà
il mondo.
Il Caffè fu luogo di battaglie culturali, nonché di risse tra gruppi contrapposti. Celebre quella fra Umberto Boccioni, spalleggiato dai futuristi milanesi, e Ardengo Soffici. E proprio il Boccioni, prendendo spunto dall’avvenimento, raffigurò il suo dipinto “Rissa in Galleria”.
La Galleria fu concepita a forma di croce, con due bracci, di 196,62 metri e di 105,10 metri, che si intersecano a formare una piazza ottogonale, sovrastata da una cupola di ferro e vetro alta 49 metri. Nei lunettoni pregevoli mosaici, raffiguranti le quattro parti del mondo, Europa, Asia, Africa e America, hanno sostituito nel 1911 i preesistenti affreschi ormai compromessi.
“Il pavimento è condotto a terrazzo con smalti, ed è opera elengatissima di artisti veneziani
……. Nel mezzo dell’Ottagono quattro grandiosi mosaici del Salviati ………Le botteghe, che in numero di novantasei, occupano tutto il piano terreno dei due lati del fabbricato, sono vaste, eleganti e divise da ampie portiere di vetro ……… Il primo piano ha finestre ampie e maestose, e al di sopra s’alza un secondo piano assai basso ……. Il terzo piano sorge in belle proporzioni, e le finestre sono intercalate da grandiosi cariatidi. Certo la parte superiore, oltre il ballatoio, resta in ombra; ma ciò serve anzi ad accrescere la vastità e l’imponenza dell’ambiente. In compenso sono illuminati i lucernari dei sotteranei, adibiti a magazzini ed opifici, e quando nei giorni che seguirono la apertura, scemata la ressa, le signore si accorsero che da quegli spiragli del pavimento qualche indiscreto avrebbe potuto occhieggiare di sotto in su, fu grande la sorpresa e lo spavento.” (Dal Corriere delle Dame)
Erano ancora i tempi in cui le signore consideravano ancora le proprie gambe come un articolo d’uso privato e chissà come … ridevano i ventiquattro illustri italiani di gesso, che, nell’Ottagono e ai lati degli archi d’ingresso, le vedevano schivare con terrore quelle specole sotterranee.
Ma pensò l’ufficio tecnico a risparmiare ogni confronto; esse furono rimosse e distrutte in quanto, congelando la nebbia sul gesso ne avrebbe provocato lo sgretolamento, donde
una grave e continua minaccia per i frequentatori della Galleria. L’illuminazione standard alimentata a gas, era assicurata da candelabri a braccio, sporgenti dalle lesene fra negozio e negozio, con le fiamme protette da globi di vetro smerigliato.
Nelle grandi occasioni l’impianto era rafforzato da ulteriori lampadari che scendevano dall’alto intorno alla cupola. Il 13 giugno 1874, alle ore 16,30, si abbattè su Milano uno dei più tremendi temporali che la storia ricordi. Preannunciato da un cielo incupito da una nera nuvolaglia, il temporale si scaricò con una inaudita violenza sulla città; i goccioloni di pioggia si trasformarono in chicchi di grandine: un autentico bombardamento con effetti disastrosi.
“Ogni grano era grande come una mela, sette o otto formavano un chilogrammo, dove battevano sfracellavano e bucavano da parte a parte come una mitraglia. Durò più di dieci o dodici minuti, eppure quale rovina, quale sterminio! Tutti i vetri andarono in pezzi. La superba tettoia che tanto il mondo ci invidia fu spogliata in un momento dei suoi grossi lastroni; fra rotti e mancanti si arrivò alla cifra di settemila niente meno.”
Così il giornale “La Perseveranza” descrisse l’avvenimento.
Nel 1875 Milano e la Galleria vissero momenti di grande festa, quando nel mese di ottobre ci fu la visita dell’imperatore di Germania, Guglielmo I. Per l’occasione fu demolito a tempo di record l’isolato del Rebecchino, poiché urgeva sbarazzare piazza del Duomo da quel vetusto ingombro
per mostrarla agli augusti ospiti nel nuovo aspetto. Giorno e notte furono portati via i materiali, così che in una settimana tutto era sparito d’incanto.
Alla sera della festa la piazza del Duomo e la Galleria furono illuminate a giorno, e l’imperatore, che era stato ricevuto dal re Vittorio Emanuele, e dalle autorità cittadine, al transito in Galleria, fu accolto dai coristi dell’orchestra del Teatro alla Scala che intonarono, nell’Ottagono
una cantata di Bach.
Nel 1876 Baldassarre Gnocchi aprì il grande caffè – ristorante allo sbocco della Galleria in piazza della Scala. Era un vasto ed elegante locale, profusamente illuminato con quattro lumiere a gas, che destarono la meraviglia del pubblico e della stampa. Egli aprì nella Galleria l’ultima vetrata a sghimbescio e nel vano costruì un’alta pedana per sistemarvi l’orchestra dei suoi concerti
serali che attiravano sempre una folla ai tavolini del caffè. Poco tempo dopo il Gnocchi scritturò l’orchestra di “Dame Viennesi” che provocò continui assembramenti di entusiasti ascoltatori.
Successivamente si alternarono orchestrine ungheresi, lombarde e toscane.
Il 30 dicembre 1877, mentre si stava sperimentando per la prima volta in Italia, un collegamento telefonico tra palazzo Marino e la caserma dei pompieri, si diffuse la tragica notizia della morte di Giuseppe Mengoni, a causa di una caduta da un’impalcatura alla sommità dell’arco
d’ingresso della Galleria. L’impressione fu grande in città ed un lungo drappo nero fu steso durante i funerali, lungo il fianco dell’arco fino a terra, dove era caduto. L’inizio del nuovo anno, il 1878, non fu certo portatore di buone notizie. Il 9 gennaio si spense di polmonite, appena cinquantanovenne, il re di Italia, al quale Milano aveva voluto intitolare la maestosa Galleria.
Negozi e locali chiusero i battenti, molti giornali sospesero tutte le pubblicazioni.
“E’ il cuore della città. La gente vi s’affolla da tutte le parti, continuamente, secondo le circostanze e le ore della giornata, e si riversa dai suoi quattro sbocchi, stavo per dire nella aorta e nelle arterie del grande organismo tanto la sua rassomiglianza colle funzioni del cuore è evidente …….. Dentro la Galleria, sui grandi cristalli delle botteghe e del caffè Gnocchi e del caffè Biffi è un incessante riflettersi e sparire di graziose macchiette dalle
testine ben pettinate, dai cappellini un po’ sgualciti, ma portati con fierezza ………. E in mezzo a quella folla, ecco andare su e giù certi tipi caratteristici che danno nell’occhio ……… a gruppi di tre, di sei, di dieci, parlano insieme, ……… gesticolando, discutono a voce alta, in tutti i dialetti della penisola, e di tanto in tanto lanciano, a mezzo tono, un trillo di baritono, una fioritura di basso profondo …….. E mentre essi dondolano su e giù, fantasticando scritture, patteggiando contratti ………. ingannando l’appetito coi bicchierini di vermutte e di assenzio del negozio Campari, i giovanotti eleganti ……… terminano di masticare svogliatamente una pasta, aspettando di far la corte alle eleganti borghesi e alle signore sole ………. In quell’ora i negozi sfolgorano in piena luce e lanciano, dietro le grandi lastre di cristallo, le loro tentazioni irresistibili …………… è un bagliore fantasmagorico che si muta ad ogni muover
di passo e non lascia in pace, una seduzione insistente che provoca tutti i gusti, aizza tutti i capricci e desta curiosità ed avidità le quali, spessissimo, debbono appagarsi d’ammirare soltanto.
C’è un’ora nella quale la Galleria rimane quasi deserta.
Il rumore di vasellame e di posate che esce dal caffè Biffi e dal caffè Gnocchi fa comprendere che in quell’ora solenne la grassa Milano siede a tavola. Un odore di pietanze calde invade l’aria e solletica le narici dei vari passanti. Poi le ombre della sera si aggravano da ogni
lato ………. Verso le undici, dopo che la folla si è diradata, dopo che i negozi si son chiusi ……… ………… Ecco le figure di donne che passano frettolose, vi lanciano, con occhi splendidamente temerari, un invito, una seduzione, e vanno a perdersi più in là dietro l’ombra notturna.”
(Luigi Capuana)
Un personaggio famoso in quegli anni fu la fioraia Teresina che, con il fazzoletto sul capo e le zoccoletto ai piedi, venne a Milano, a sedici anni, dalla campagna per offrire fiori. Dal ridotto della Scala, ove personalmente metteva un candido fiore
all’occhiello dei suoi molti conoscenti
e amici, passava, ogni sera, al Biffi col suo profumato canestro a
vendere mazzolino di fiori. Conosceva bene i suoi clienti e non aveva
l’abitudine di farsi pagare al momento poiché erano i suoi “abbonati” che, a
fine mese, le davano il compenso in busta chiusa. La notte fra il 16 e il 17
giugno 1881, la bella fioraia fu vittima di un drammatico caso.
Mentre stava tornando a casa, in piazza Fontana, fu improvvisamente assalita da un individuo che la ferì al viso con la lama di un rasoio.
Un urlo fece accorrere la gente che la trasportò sanguinante all’ospedale ove le diedero diciassette punti per cucire la ferita.
Per fortuna lo sfregio era superficiale e guarì in una ventina di giorni, ma,
per quel taglio che la deformava, non si fece più vedere.
Nei momenti più caldi del dibattito sociale, la Galleria
fu uno dei luoghi più utilizzati per ogni tipo di manifestazione, come riporta
Emilio De Marchi:
“Quando si sparge e corre per la città una grande notizia politica o ricorre un grande anniversario, immensa è la fiumana di gente che vi si versa di giorno e di sera.”
Sempre più frequentata, sempre più vitale, sempre più
simbolo della metropoli, purtroppo essa divenne il punto più preso di mira
dalle forze dell’ordine. Trattandosi di una struttura aperta per ventiquattrore
su ventiquattro, come qualsiasi piazza, la Galleria era accessibile a chiunque.
Se nelle ore diurne rappresentava il “salotto buono”
della città, nelle ore notturne, allorché l’illuminazione standard si spegneva
e rimanevano accesi soltanto i quattro lampioni d’angolo, si popolava di una
umanità quanto mai varia e pittoresca.
“Di notte la Galleria è uno spettacolo
che fa pensare, e che incute nell’animo
un senso pauroso di irriverenza ………
è di quelli che non hanno una casa, di
quelli che gli amici menano a perdizione,
dai traditi dell’amore, e di chi torna da
una festa di ballo …………..”(Emilio De Marchi)
La Milano di fine ottocento era una delle capitali della vita teatrale, soprattutto lirica. Da ogni parte del mondo giungevano artisti in cerca di gloria, disposti a tutto pur di calcare il palcoscenico di un teatro cittadino: la Scala, preferibilmente. Il punto nevralgico di tutto questo complesso sistema di speranze canore era la Galleria. A differenza della Scala, in
Galleria non vi erano momenti in cui il cuore di tremila persone batteva allo
unisono con quello dei tenori e dei soprani, non vi erano le grandi emozioni canore e i trionfi della lirica, ma fiaschi e successi ebbero il loro battesimo nell’Ottagono.
“La Galleria Vittorio Emanuele era affollata ……. Verso la cupola di vetro dell’Ottagono,
da cui pioveva una luce scialba, saliva un ronzio incessante e monotono. E pensare che quel ronzio era il risultato delle mille voci, le quali, secondo i giornali teatrali avevano entusiasmato tutti i pubblici del mondo! Infatti, dal caffè Biffi, io vedevo sfilarmi dinanzi tutta la processione degli artisti da teatro e ……. affini: tenori, baritoni, bassi, agenti … ………… professori di orchestre, maestri concertatori, coreografi ……….. coristi, ballerine e ballerini.…… Il ronzio diventava sempre più fragoroso; ma, in quel frastuono di voci, di parole, che più di frequente risonavano, erano: scrittura, opera nuova, fiasco ………. fischiato, orchestra, finale, duetto ………… serata, impresario. Poi erano nomi di città, di opere, di balli, di drammi.” (Ferdinando Fontana)
Esisteva pertanto un mercato brulicante, che oggi neppure si immagina, degli impresari e degli artisti da scritturare. C’era un condensato di tutto un mondo teatrale; innumerevoli erano le leggende sulla vita musicale. Titta Ruffo, calato a Milano, si era seduto al caffè Biffi per
respirare l’aria della Scala, quando fu avvicinato da un vecchio galoppino che
gli chiese se era disposto a concedere un’audizione al maestro Toscanini. Il giorno dopo, alla Scala, gli fu offerto un contratto di tre opere e, da quel momento, divenne uno dei più grandi baritoni della lirica italiana. Uscì dalla Scala inebriato di gioia. Non avevo che
venticinque anni. Il sogno da me accarezzato era ormai rapidamente …………..
diventato una realtà. Traversai la Galleria …………
Nel 1896, il compositore Umberto Giordano cercava un tenore per la sua opera “Andrea Chenier”, in quanto Alfonso Garulli, preoccupato per un insuccesso dell’opera, aveva rinunciato alla parte.
Giordano battè disperato in lungo e in largo la Galleria, finchè un giorno un amico gli presentò il tenore Giuseppe Borgatti che accettò la parte e contribuì non poco al successo scaligero dell’opera. Nel 1885, Virgilio Savini comperò il locale della ditta Stocker e continuò a gestirlo come ristorante e birreria. Fin dall’inizio il Savini seppe accogliere e rianimare
gli ultimi tempi della scapigliatura offrendo nel frattempo alle sue grandi
vetrate di riflettere le figure del giornalismo e del teatro che davano lustro
a Milano.
All’inizio del ‘900 apparvero i rossi divani di peluche, i tavolini con i tipici paralumi rossi, i grandi candelabri e le fioriere forgiate in ferro battuto. Sempre più divenne il ritrovo di rigore per i
Milanesi, gli italiani e gli stranieri. Fu il quartier generale di Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo. Di là egli partiva per la sua
serata con la maggiorina in testa, accompagnato dal gruppo dei suoi fedeli, si
recava in Galleria a battagliare col pubblico per due o tre ore.
Non vi furono avvenimenti artistici e letterari che non siano stati tenuti a battesimo al Savini: l’apparizione di un libro, la prima di una commedia, la serata alla Scala, una mostra di pittura, venivano commentate e vagliate ai tavolini del Savini, fra le dieci e mezzanotte dinanzi
a un risotto all’onda.
Proprio al centro dell’Ottagono sono raffigurati nel mosaico del pavimento gli stemmi delle più importanti città d’Italia, fra questi il toro di Torino, l’AUGUSTA TAURINORUM dei romani,
che un tempo recava gli attributi maschili bene in vista. Pare che a volerlo raffigurato in modo
così realistico fosse stato lo stesso architetto Giuseppe Mengoni.
La trovata del toro voleva essere scherzosa “per scandalizzare e solleticare dame e damigelle milanesi”, che Mengoni considerava troppo sussiegose.
Del resto, fin dai tempi più remoti, il toro è simbolo di piacere e di forza, di prestanza fisica e di virilità, e sono molti i popoli che lo hanno celebrato come tale. Qualunque siano state le intenzioni del Mengoni, il possente toro rampante divenne la meta di donne e ragazze che vi
poggiavano una mano o un piede scalzo, ma talvolta si sedevano addirittura sull’organo riproduttivo che, secondo una leggenda, si animava procurando loro piacere.
Qualche benpensante pensò di porre fine a tale spettacolo licenzioso, e cancellò la parte più scabrosa del mosaico. Per porre rimedio, il buco venne colmato con del ferro, così da eliminare ogni “effetto secondario a livello fisico”.
Una superstizione moderna invece vuole che premere il piede in corrispondenza degli attributi del toro, facendo una leggera rotazione su se stessi, porti fortuna. Il pavimento, rovinato durante l’ultima guerra mondiale, fu riportato all’antico splendore nel 1967 e quando fu reso praticabile, i
milanesi constatarono con indignazione che il Comune aveva privato il toro della sua “peculiarità”, impedendo la possibilità del rituale porta fortuna. Nel ‘900 la Galleria fu testimone attendibile e scrupoloso dell’evolversi della situazione nazionale. La “via coperta” del Mengoni fu spettatrice e partecipe delle lotte fasciste e antifasciste, delle miserie postbelliche che delle
crescenti passioni sportive ambrosiane.
Bombardata più volte durante la seconda guerra mondiale, ebbe la copertura distrutta, il pavimento divelto, una parte degli uffici danneggiati. Occorreranno anni, prima che queste ferite siano rimarginate. Bisognerà attendere il 7 dicembre 1955, festa del patrono, per vedere la nuova inaugurazione. Con il suo arco trionfale d’ingresso rappresentò nuovamente il luogo di incontro prediletto dei milanesi, il cuore della città.
“Si potrà dire e lo si dice che la Galleria è una sconcezza di stucco, che non ha nessun gusto d’arte, che è la grotta di Eolo, che in architettura è scorretta come la lettera di un pompiere innamorato, ma tutti ce la invidiano." (Emilio De Marchi)